martedì 23 dicembre 2014
La vita può partire, o ripartire, da un orto. Che produce cibo ma anche dignità. E magari spinge ad essere da esempio per altri.
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La vita può partire - o ripartire - da un orto. Che produce cibo ma anche dignità, alimenti ma anche orgoglio di cavarsela un po’ da soli e, magari, essere da esempio per altri. È accaduto e accade in Africa, dove con la fame sono costretti a conviverci ancora, ma dove l’agricoltura, seppur intesa diversamente che in Europa, possiede una ricchezza spropositata, a patto che venga ben gestita. Meno tecnologia rispetto all’Occidente, magari, ma più vicinanza ai bisogni della gente, a quella fame che, appunto, con gli orti ben progettati, condotti e sfruttati potrebbe essere combattuta meglio. È nato da queste idee il progetto di Slow Food «10.000 orti in Africa». Una cosa ambiziosa che, però, ha già preso vita. Alla base di tutto, come si è detto, il movimento Slow Food. «La nostra organizzazione – spiegano – propone un modello di sviluppo dal di dentro, che non parte da modelli esterni ma che prende origine dalla storia e dalle caratteristiche del continente stesso. Al centro ci sono le persone, attori e protagonisti delle azioni, dei progetti». Niente utopia o sogni bucolici, occorre dirlo, ma una iniziativa che ha da subito presente i problemi: tempi e  soldi. «Il percorso di questo sviluppo – dice ancora Slow Food – è molto più lungo, più faticoso». Il progetto dei 10mila orti, a ben vedere, non è nato oggi ma nel 2010 a Torino, quando al Salone del Gusto e Terra Madre si lanciò l’iniziativa di dare vita sempre in Africa a mille orti. «Un obiettivo ampiamente raggiunto», dicono in Slow Food. Oggi quindi si parte per il nuovo traguardo. Il nucleo principale, ovviamente, è l’orto. Interpretato nelle sue varie forme africane: dalle oasi marocchine alle terre aride del Mali, dagli altopiani del Kenya alle foreste ugandesi. Le comunità producono i propri semi, coltivano i prodotti tradizionali (ortaggi, legumi, frutta, erbe aromatiche e medicinali), usano rimedi naturali per fertilizzare il terreno, per combattere insetti nocivi ed erbe infestanti. Tutto con l’aiuto dei tecnici del movimento. Gli orti, quindi, per farsi il cibo da sè ma anche per combattere un fenomeno ormai dilagante: il land grabbing, cioè l’accaparramento di terreno fertile da parte delle grandi multinazionali dell’alimentazione. «Promuoviamo anche il diritto alla sovranità alimentare delle comunità locali – dice l’organizzazione –. Gli strumenti del riscatto africano sono questi: la conoscenza del proprio patrimonio di varietà, di razze locali, di prodotti agroforestali, la valorizzazione della gastronomia africana che ha mille sfaccettature. I 10mila orti rappresenteranno questo riscatto». Stabilito cosa fare, a Slow Food lo sanno, i problemi non sono tutti risolti. «Senza dubbio – spiegano –, se paragonato alla gravità e alla complessità della perenne crisi che attanaglia il continente africano, l’atto di coltivare un orto sembra un gesto piuttosto insignificante. Ma se gli orti diventano 10mila e se, attorno a questi, nascono reti di contadini, agronomi, studenti e cuochi in oltre venti Paesi, allora questi piccoli progetti possono indicare la strada verso un futuro sostenibile». Per questo, sempre il movimento di Carlin Petrini ha lanciato un appello: essere accompagnati, anche economicamente, in un percorso che durerà quattro anni e che porterà dagli attuali mille orti ai futuri 10mila. A raccolta, Petrini ha chiamato un po’ tutti. Fra meno di 1.500 giorni si conterranno i nuovi orti che nel frattempo saranno nati.

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