Foggia. Dialogo nei campi con l’«App rurale»
Ha frequentato il liceo classico e gli mancava poco alla laurea in giurisprudenza. È stato direttore artistico di un paio di discoteche e istruttore di elicotteristi, con un posto fisso ben retribuito a 5 minuti da casa, invidiato da tutti. Ora fa il contadino, per scelta, e ha inventato, insieme ai suoi amici, la prima App rurale d’Italia, con un nome che sembra uno di quegli scherzi social virali – 'Vazapp' –, ma che è invece una cosa tremendamente seria. Oltre tutto funziona. Lui è Giuseppe Savino di Foggia, 35 anni, un’azienda agricola di famiglia che sta tentando di innovare, ma soprattutto con la vocazione a mettere insieme i giovani. Anche questa capacità frutto di 'eredità', ma trasmessagli da un sacerdote salesiano, don Michele de Paolis, morto due anni fa a 93 anni, che gli ha cambiato la vita. «Quando lasciai il posto fisso – racconta – mi diedero del pazzo. Ma io volevo vivere il Vangelo, non solo proclamarlo. E così parlando con don Michele, mi sono accorto che era la terra la nostra più grande risorsa. La provincia di Foggia è quella in Italia con la più grande estensione di terreni coltivabili, perché non sfruttarla? ». Nasce così 'Vazapp', il tentativo risuscito di far dialogare tra loro i giovani contadini. Savino e i suoi amici si inventano le 'contadinner', cene in cui ognuno porta qualcosa e si ascoltano le necessità dei coltivatori, «per avere in tempo reale contezza delle loro necessità». Sono nate così decine di nuove aziende, due cooperative e 20 collaborazioni tra aziende. Ma soprattutto, conclude Giuseppe, «i giovani hanno visto che l’agricoltura offre lavoro. Non vanno più via e anzi qualcuno comincia a tornare».
Napoli. «Rigenerazione» a 360 gradi
Il loro motto è: «L’unica cosa che non ricicliamo sono i soldi». Per tutto il resto c’è "Ambiente solidale", una cooperativa sociale per l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati (ex tossicodipendenti, ex detenuti), che opera a Napoli e in diversi centri della provincia da oltre 10 anni, dando lavoro a una trentina di persone. Antonio Capece, 36 anni, laurea in economia, ne è il presidente. E spiega che il core business della cooperativa è attualmente il recupero e la "rigenerazione" degli indumenti usati. «Ha presente le classiche campane, che si trovano per strada e in cui la gente deposita i vestiti vecchi? – dice –. C’erano in molte città, ma non a Napoli. Noi, dopo esserci messi in contatto con la Caritas di Milano, abbiamo colmato questo vuoto». Risultato, 2000 tonnellate di rifiuti tessili raccolti ogni anno, con una serie di benefici per la collettività, non solo economici. Capece ricorda che il loro smaltimento costerebbe ai comuni 150 euro a tonnellata. Dunque il risparmio complessivo è di 300mila euro all’anno. Senza contare il mancato inquinamento, derivante dal fatto che i vestiti non finiscono più in discarica (il 95 per cento viene riusato), l’indotto economico del recupero e ora anche, ultimo elemento della filiera, l’apertura di un negozio per vendere al dettaglio i vestiti rimessi a nuovo, aperto al centro di Napoli. La cooperativa si occupa anche di rifiuti elettronici e altro. Ma il "riciclo" di cui vanno più fieri è quello degli uomini. «Quasi tutti quelli che vengono a lavorare con noi non ricadono più nella droga o nella delinquenza – sottolinea il presidente –. Guadagnano in un mese ciò che prima prendevano in un giorno. Ma sono soldi puliti. E con loro è più pulita anche Napoli».
Locri-Gerace. L’alta moda etica griffata «Cangiari»
Che cosa hanno in comune la Penelope omerica e l’alta moda? Una parola in calabrese – "Cangiari", cioè cambiare – che è diventata anche la prima griffe di alta moda etica. "Cangiari" nasce, infatti, in seno al progetto Goel, diocesi di Locri-Gerace (un frutto del Progetto Policoro per l’imprenditoria giovanile), che oggi ha 201 dipendenti a tempo indeterminato con servizi per i minori, gli immigrati, assistenza ai disabili psichici, cooperative agricole e anche un’agenzia di viaggi. E nasce da un grido di dolore di giovani donne calabresi che, come racconta Vincenzo Linarello, uno dei responsabili di Goel, si accorgono di una perdita culturale enorme della loro regione. Sta scomparendo la millenaria cultura del telaio a mano. Sì, proprio quello di Penelope. «Fino a 50 anni fa ogni casa ne aveva uno», dice Linarello. Poi erano quasi del tutto scomparsi. Di qui nasce la ricerca: rimettere in sesto questi macchinari complicatissimi, che solo le anziane "majjstre" sapevano usare, impilando 1800 fili nei licci del telaio. «Spesso erano analfabete – dice Vincenzo –, ma imparavano a memoria delle filastrocche con la decodifica di autentiche formule matematiche, che tramandavano di generazione in generazione». Ora quell’arte è stata fissata su carta e serve a produrre tessuti secondo gli antichi disegni della tradizione grecanica e bizantina. Un patrimonio culturale di inestimabile valore, che si è trasformato anche in business economico. «Goel – ricorda Linarello – era in Israele colui che doveva difendere i suoi dalla schiavitù. Grazie a queste start up noi vogliamo difendere i giovani e la nostra terra dalla schivitù della ’ndrangheta, che si alimenta di disoccupazione».