«I giovani pagano un paradosso tutto italiano: quello di aver flessibilizzato – come era giusto e utile – il mercato del lavoro, lasciando però estremamente rigido tutto il resto». Francesco Delzio, classe 1974, già direttore dei Giovani imprenditori di Confindustria, autore di libri come «Generazione Tuareg» sui giovani e «La scossa» sul Mezzogiorno, non è certo stupito degli ultimi dati Istat sull’occupazione.
Le cifre sono impressionanti per i ragazzi tra i 15 e i 24 anni. Cosa non ha funzionato: la difesa degli ammortizzatori sociali o l’attacco delle politiche attive?Entrambi. Solo da noi i sussidi non coprono adeguatamente i più giovani e precari. Non è stata realizzata la "seconda gamba" della riforma Biagi, quella che prevedeva il rafforzamento delle tutele sul mercato del lavoro. Ma più in generale da noi tutte le opportunità sono riservate a chi può contare su contratti a tempo indeterminato o gode di redditi familiari elevati. A differenza che in Francia o in Gran Bretagna, in Italia la formazione universitaria dipende principalmente dal censo: se si proviene da una famiglia benestante, e con genitori laureati, sarà più facile l’iscrizione e la laurea. Ancora: all’estero si può ottenere un prestito per frequentare un master sulla base del proprio curriculum; da noi le banche concedono i finanziamenti esclusivamente sulla base delle garanzie economiche dei genitori. E lo stesso vale per un’idea di impresa: gli istituti di credito chiedono l’ipoteca sulla casa dei nonni...
C’è un deficit di attenzione politica verso i giovani?Sì, nessun governo negli ultimi 10 anni ha investito risorse vere a favore dei giovani. Di fatto si è scelto consapevolmente di non considerare prioritario il problema della condizione giovanile.
Un ruolo fondamentale è quello della scuola: in questo campo, però, le riforme non sono mancate. Come le giudica e cosa non funziona?La riforma Gelmini ha molti aspetti interessanti, ma resta da abbattere quel muro che ancora divide l’istruzione e l’università dalle esigenze delle imprese e del mercato del lavoro. Da un lato le università continuano a proporre un’offerta formativa
omnibus, molto trasversale, che darà pure apertura mentale ma specializza poco, costringendo le aziende a (ri)formare sul campo i lavoratori. Dall’altro i giovani, in particolare al Sud, insistono a iscriversi in massa alle facoltà umanistiche, a lettere o a giurisprudenza, autocondannandosi al precariato. Eppure anche nel Mezzogiorno esistono ottime facoltà scientifiche: per favorire le iscrizioni si potrebbe pensare a sconti sulle tasse.
Al Sud una generazione è a rischio, come si può pensare di evitare il disastro sociale?I ragazzi meridionali pagano oggi un addensarsi di fattori negativi: dall’inarrestabile deindustrializzazione del territorio alla fine dei trasferimenti statali; dal prossimo esaurimento, nel 2014, dei finanziamenti europei, alla costante crescita del lavoro nero. Il Mezzogiorno ha dunque un bisogno estremo di capitali privati e di idee d’impresa. Serve uno choc – una «scossa» come ho scritto nel mio libro – che potrebbe essere innescata dalla previsione di una
no tax area, una fiscalità di forte vantaggio nel Sud, assieme a iniziative come una legge obiettivo per lo sviluppo del turismo. Altrimenti, ai ragazzi del meridione l’emigrazione resterà come unico orizzonte alternativo a quello di un destino al ribasso, all’iscrizione alla lista dei «né-né», gli inattivi che non lavorano e non studiano.
Ma oggi che consiglio darebbe a un ragazzo meridionale?Di completare la propria formazione con un’esperienza al Nord o meglio all’estero. Poi tornare e con l’apertura mentale acquisita avviare un’impresa. È vincere la sfida più importante.