Cecchini proteggono il centro congressi di Davos (Ansa)
Basta dare un’occhiata al programma della 47esima riunione annuale del World Economic Forum (Wef) che si apre domani a Davos per constatare che la globalizzazione oggi sta peggio che mai. Nel discorso di apertura il cinese Xi Jinping, cioè il presidente comunista della più popolosa dittatura del pianeta, illustrerà ai 3mila politici, manager, finanzieri, imprenditori economisti e miliardari riuniti nella cittadina svizzera i vantaggi del libero mercato, i pericoli del protezionismo e l’importanza di andare assieme verso una crescita mondiale “inclusiva”, cioè capace di coinvolgere tutti.
Poco importa che il protezionismo, nelle sue varie forme, sia una delle principali caratteristiche del sistema economico cinese ("Xi pensi ad aprire il suo mercato", gli ha ricordato ieri con poca diplomazia l’ambasciata tedesca a Pechino) o che, come scrive lo stesso Wef nel rapporto preparato proprio per questo meeting, «in Cina la diseguaglianza nella ricchezza è cresciuta a livelli estremamente alti». Ai potenti riuniti a Davos tocca ascoltare le lezioni di Xi perché l’altro più importante leader politico del mondo, Donald Trump, ha vinto le elezioni proprio dichiarando guerra a quella globalizzazione che è da sempre il cuore dell’attività del Wef. Difatti il prossimo presidente americano a Davos non ha mandato nessuno a parlare per lui.
Forse per la prima volta nella quasi cinquantennale storia di questo meeting i leader che si incontrano in Svizzera sono gli sconfitti del momento: la vittoria di Trump, quella della Brexit, la crescente popolarità dei movimenti cosiddetti populisti sono anche il frutto della crescente impopolarità dell’idea dell’apertura dei mercati come strada per generare crescita economica. La crescita c’è stata, ma in molti paesi, soprattutto in quelli ricchi, non è stata “inclusiva”: i più poveri sentono, spesso a ragione, di essere ancora poveri, la classe media, altrettanto giustamente, sente di essere più povera di qualche anno fa, i giovani si sentono lasciati fuori dal mercato del lavoro e dalla condivisione della ricchezza nazionale. Così il consenso democratico alle politiche che hanno favorito la globalizzazione è ai minimi storici.
Lo sanno bene anche a Davos, tanto che lo stesso World Economic Forum, con sorprendente ritardo, ha creato un nuovo indice per misurare il benessere delle nazioni, andando oltre il vecchio Pil e verso qualcosa di più simile all’indicatore di Benessere equo e sostenibile, il Bes, con l’obiettivo di «proporre un cambio alle priorità della politica economica per rispondere in maniera più efficace all’insicurezza e alla diseguaglianza che accompagnano il cambio tecnologico e la globalizzazione». Lo hanno chiamato Idi, sigla che sta per Inclusive development index, cioè Indice di sviluppo inclusivo, e abbina ai consueti indicatori economici criteri più generali come la disparità nei redditi e nelle ricchezze, la mobilità sociale, la qualità della vita e dell’ambiente o la sicurezza.
Applicando questo nuovo metodo di misurazione del benessere a 103 paesi, il Wef arriva alla conclusione che nel 51% degli Stati il benessere è peggiorato negli ultimi cinque anni. Colpa della crisi? Non proprio: nel 42% dei casi l’indicatore di benessere è sceso nonostante il Pil pro capite sia aumentato. Segno visibile di quella “ripresa per pochi” che è diventato uno dei grandi problemi dell’economia mondiale. Guardati con gli occhiali dello sviluppo inclusivo, paesi come Cambogia, Repubblica Ceca e Nuova Zelanda sono quelli che hanno segnato i progressi più significativi negli ultimi cinque anni, guadagnando posizioni in una classifica guidata dalla Norvegia, mentre Brasile, Irlanda, Stati Uniti, Giappone e Sudafrica hanno visto crescere la distanza tra l’andamento del Pil e il benessere generale.
Tra i “bocciati” c’è anche l’Italia, che è ventunesima su trenta economie avanzate a livello di Pil pro capite ma scivola al ventisettesimo posto (su ventinove) nella classifica dello sviluppo inclusivo. L’Idi dell’Italia è calato del 4,9% negli ultimi cinque anni, uno degli andamenti peggiori tra i paesi ricchi. Paghiamo in particolare il ritardo sulla crescita, sul lavoro e sui giovani. Siamo ventunesimi per tasso di povertà e per disparità nei redditi (ma noni per distribuzione della ricchezza), addirittura ventottesimi per equità tra generazioni, questo soprattutto a causa delle dimensioni del debito pubblico rispetto al Pil e per la sproporzione tra gli anziani e la popolazione in età lavorativa (il tasso di dipendenza è del 56,5%). «Il sistema di protezione sociale italiano non affronta questi problemi e non è né particolarmente generoso né efficiente» nota il Wef, aggiungendo che l’Italia soffre anche «per una corruzione pervasiva e ha problemi riguardo all’etica della politica e delle imprese».