Non solo nell’industria e non solo in Italia: quello che sta avvenendo, per Marco Fortis, è un «drammatico ridimensionamento dell’occupazione a livello globale». Ma per il responsabile della Direzione Studi Economici di Edison la prima distinzione va fatta tra Paesi «con bolla» e Paesi «senza bolla». Da cui ne deriva una seconda: quella fra crisi «interna» e crisi «importata». Le conseguenze sull’occupazione, nei due casi, sono decisamente diverse.
Partiamo dai Paesi con «bolla» immobiliare e finanziaria, l’epicentro della crisi globale.Stati Uniti, Spagna, Gran Bretagna: stanno pagando un costo altissimo in termini di posti di lavoro bruciati in tutti i settori. Imprese di costruzioni, le prime a saltare, banche, compagnie aeree, manifatturiero. Dall’inizio solo negli Usa sono spariti 8 milioni di posti di lavoro. Proporzioni simili non si vedevano dalla Grande Depressione.
In Italia lo scorso anno c’erano 380mila occupati in meno. Non sono pochi.Sono tantissimi, ma non paragonabili, nemmeno in proporzione, agli 8 milioni americani o ai 2 milioni spagnoli. Non a caso, il gemello degli Usa in Europa è la Spagna, dove alle grandi perdite di posti di lavoro nell’industria conseguenti alle delocalizzazioni degli anni Novanta si era sopperito con la bolla immobiliare e della New economy. L’Italia assomiglia invece a Germania e Giappone.
Perché non ha vissuto una crisi «da bolla immobiliare-finanziaria»?Perché la crisi è stata speculare. Questi Paesi sono stati toccati nell’export e quindi nell’industria, in particolare manifatturiera. I Paesi con bolla, invece, si sono sovra-indebitati, famiglie incluse. E a saltare sono stati quindi i consumi interni. Di conseguenza, le nostre esportazioni verso quei Paesi sono diminuite e le imprese hanno dovuto tagliare posti di lavoro. Ma ben più grave, per l’Italia, sarebbe stata una crisi «interna», una crisi dei consumi e delle famiglie.
La crisi, cioè, l’hanno in qualche modo assorbita le imprese?Hanno fatto da cuscinetto. Utilizzando anche gli ammortizzatori sociali che, pur da riformare, sono stati fondamentali. Il vero tema, ora, è capire quanto le imprese reggeranno prima che l’export riparta. Quanto riusciranno cioè ad assorbire la crisi e a non trasferirla alle famiglie con i licenziamenti.
A quali imprese si riferisce quando parla di effetto cuscinetto?Soprattutto alle medie imprese, che in molti casi non hanno nemmeno utilizzato la cassa. E per fortuna il cosiddetto "Quarto capitalismo" di queste aziende – ben strutturate, patrimonializzate, capaci di investire – è l’ossatura del nostro sistema.
Fiat sembra voler dimagrire in Italia: vale ancora la regola «un posto in meno al Lingotto dieci in meno nell’indotto»?Per fortuna non è più così. Prendiamo la componentistica: le aziende italiane della filiera producono per tutte le grandi case. Pagano quindi la crisi dell’auto, non quella della Fiat.
Quali imprese hanno subito invece più duramente l’onda d’urto della recessione e sono state costrette licenziare?In primo luogo le microimprese dell’indotto. Quelle cresciute come funghi quando grandi e medie aziende hanno iniziato a esternalizzare per aumentare la produzione senza aumentare l’occupazione. Poi la crisi ha tagliato del 25% la domanda estera e queste ultime si sono riprese dei segmenti di produzione. Ci sono poi i grandissimi gruppi dell’industria pesante (metallurgia e metalmeccanica). E in questo caso la situazione è preoccupante per le ristrutturazioni in atto: le multinazionali tendono a cavalcare la crisi per chiudere stabilimenti e centri di ricerca o spostarli altrove.
Basteranno le medie imprese a puntellare l’Italia?La loro tenuta sarà fondamentale. Ma proprio adesso dovrebbero provare a buttare il cuore oltre l’ostacolo.