Margrethe Vestager, commissario europeo alla Concorrenza, alla conferenza stampa del 10 settembre - Ansa
È un’autentica vittoria, tutt’altro che scontata, quella che ha incassato la Commissione Europea contro Apple. In qualche modo un regalo di addio a Margrethe Vestager, la vicepresidente responsabile da dieci anni dell’Antitrust Ue, il cui mandato finisce tra poche settimane con l’arrivo del nuovo esecutivo e che ha tradito qualche lacrima di commozione, con applauso finale dei cronisti. Perché la Corte di giustizia Ue, annullando clamorosamente il verdetto contrario del grado inferiore di giudizio (il Tribunale Ue), ha confermato in via definitiva la storica decisione presa dall’esecutivo Ue nel 2016 contro la casa della Mela: e cioè l’obbligo di restituire 13 miliardi di euro di agevolazioni fiscali indebite elargite dal governo di Dublino per le controllate Apple in Irlanda. Altra vittoria per la Commissione anche sul fronte di Google, con la conferma definitiva di una multa di 2,4 miliardi per abuso di posizione dominante sul fronte della comparazione dei prodotti. Episodi del lungo braccio di ferro tra Bruxelles e le big digitali made in Usa (tra cui anche Facebook, Microsoft, X).
Il caso Apple rientra nella crociata di Bruxelles contro i trucchi delle multinazionali per ridurre al massimo (in alcuni casi fino a quasi zero) la base imponibile, con l’aiuto di vari Stati Ue (oltre all’Irlanda spiccano ad esempio Lussemburgo e Cipro) con forti sconti fiscali per attirare queste grandi società. Una crociata che, insieme alle azioni in seno Ocse, ha portato a varie modifiche da parte degli Stati membri, dell’Ue e a livello internazionale, grazie anche agli scandali suscitati da varie inchieste giornalistiche. «È un gran giorno – ha dichiarato Vestager – per i cittadini e per la giustizia fiscale».
Nel 2016, la Commissione aveva ritenuto che il fisco irlandese con due decisioni fiscali anticipate, nel 1991 e nel 2007, aveva favorito due controllate locali di Apple (Apple Sales International, ASI, e Apple Operations Europe, AOE). Decisioni che approvavano la metodologia utilizzate dalle due società per calcolare l’imponibile in Irlanda, consentendo loro di non conteggiare i proventi miliardari delle licenze di proprietà intellettuale da loro detenute (con l’argomentazione che la gestione di quelle licenze dipendeva da decisioni adottate a livello del gruppo Apple negli Usa). In questo modo, avverte Vestager, «una delle due società ha pagato un’aliquota di appena lo 0,05%». La Commissione ha calcolato l’entità delle indebite agevolazioni a 13 miliardi di euro, da restituire all’erario irlandese. I vertici di Apple già allora ebbero reazioni furiose, l’ad di Apple Tim Cook parlò di «idiozia politica».
Nel 2020, il Tribunale Ue, cui aveva fatto ricorso Apple con il sostegno del governo irlandese, dette poi ragione alla casa fondata di Steve Jobs, sostenendo che la Commissione non aveva sufficientemente dimostrato l’esistenza di un vantaggio selettivo a favore di Apple. Argomentazione cassata da questa sentenza del massimo grado della Corte Ue, secondo la quale, recita un comunicato, «il Tribunale è incorso in errori» nelle sue valutazioni.
Al contrario, «la Corte conferma l'approccio della Commissione». Dublino (che intanto ha comunque modificato le proprie normative in materia) ha fatto sapere che «rispetterà la sentenza». «Questo caso – reagisce in una nota Apple, ovviamente delusa dalla sentenza – non ha mai riguardato la quantità di tasse che paghiamo, ma il governo a cui siamo tenuti a pagarle. Paghiamo sempre tutte le tasse che dobbiamo ovunque operiamo e non c'è mai stato un accordo speciale». Secondo la casa di Cupertino, Bruxelles «sta cercando di cambiare retroattivamente le regole, ignorando che il nostro reddito era già soggetto a imposte negli Stati Uniti».
Sul fronte Google, la Commissione incassa la conferma della sua decisione del 2017 di infliggere una multa di 2,4 miliardi di euro per «aver abusato della sua posizione dominante su vari mercati nazionali della ricerca su Internet favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti rispetto a quello dei suoi concorrenti». Al centro è il servizio Google Shopping. Già nel 2021 una conferma in primo grado era arrivato da parte del Tribunale Ue. In particolare, la Commissione contesta a Google di aver «privilegiato, sulla sua pagina di risultati di ricerca generale, i risultati del proprio comparatore di prodotti rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti». «Questa sentenza – ha reagito un portavoce di Google – si riferisce a una serie molto specifica di fatti. Abbiamo già fatto cambiamenti nel 2017 per rispettare la decisione della Commissione». «È un caso – dice per parte sua Vestager – molto simbolico, in quanto dimostra che anche le più potenti società tecnologiche possono essere chiamate a rispondere».