Dal presideente degli industriali Carlo Bonomi un nuovo appello al governo - Ansa
Servono pochi grandi progetti per portare l’Italia fuori dalla crisi economica innescata dalla pandemia. Dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi arriva un nuovo appello al governo a sfruttare al massimo le opportunità previste dal Recovery fund. L’industria manifatturiera italiana resiste, e si colloca ai primissimi posti nel panorama europeo e mondiale, ma preoccupano gli effetti della seconda ondata e il saldo negativo delle imprese. E soprattutto la mancanza di strategie chiare per il futuro a medio termine.
«Il Piano Next Generation Eu rappresenta una opportunità senza precedenti per realizzare un programma massiccio di investimenti pubblici e privati, che rilanci la competitività del sistema produttivo italiano nella fase di ripresa post-pandemia» è il monito lanciato da Bonomi in un videomessaggio alla presentazione del rapporto annuale sugli «Scenari industriali» del Centro studi degli industriali. «Il rischio che l’Italia non riesca a sfruttare pienamente questa opportunità purtroppo è molto alto», ha aggiunto Bonomi, secondo cui «per minimizzarlo sarebbe auspicabile che il piano fosse perseguito individuando pochi, grandi progetti su nodi strategici per lo sviluppo del Paese» e con una governance «unitaria» a livello nazionale.
La manifattura mondiale è «sotto lo scacco della pandemia», con un effetto generalizzato che non risparmia alcuna area, ma l’Italia tutto sommato «resiste». È un bilancio positivo quello emerso dal rapporto «Innovazione e resilienza: i percorsi dell’industria italiana nel mondo che cambia» presentatto oggi. Il rallentamento produttivo del nostro Paese infatti «non costituisce una anomalia nel confronto internazionale. Rispetto alle altre grandi economie europee l’Italia mostra anzi una contrazione dei tassi di crescita relativamente contenuta, oltre che una maggiore reattività allo shock pandemico», sottolinea il Centro studi di Confindustria. L’impatto dell’emergenza sanitaria è stato immediato. Nei due mesi di lockdown (marzo e aprile) la produzione è diminuita mediamente di oltre il 40%, anche se con un profilo fortemente disomogeneo a livello settoriale (si va dal -92,8% della produzione di prodotti in pelle al -5,5% del farmaceutico). Il recupero dei livelli produttivi da maggio è stato pressoché istantaneo, così che nel giro di quattro mesi il livello di produzione è tornata ai livelli di gennaio. Ma «le prospettive per i mesi autunnali sono tornate negative, in linea con l’aumento dei contagi a livello globale e con l’introduzione di nuove misure restrittive» avverte Confindustria.L’Italia ormai da anni si trova al settimo posto della graduatoria mondiale dei principali produttori manifatturieri, con una quota del 2,2%, davanti alla Francia (1,9%) e al Regno Unito (1,8). Un’ottima posizione in classifica (i dati sono relativi al 2019) che l’industria italiana sembra avere tutte le carte in regola per mantenere. Anche per la sua capacità di giocare d’anticipo la sfida della sostenibilità ambientale potendo contare su un «vantaggio strategico da first mover» rispetto a molti dei suoi partner internazionali.
Dal punto di vista dell’occupazione «la drammatica caduta dell’output manifatturiero è stata quasi interamente assorbita dalla riduzione del monte-ore lavorate (-23%), a fronte della sostanziale tenuta del numero degli occupati complessivi (-0,6%)», sottolinea il rapporto. Hanno fatto da "cuscinetto" un’ampia gamma di forme di riduzione dell’orario di lavoro, lo smaltimento delle ferie e l’utilizzo di congedi, il ricorso rapido e massiccio a strumenti di integrazione al reddito da lavoro (a partire dalla cassa integrazione in deroga). Ma, naturalmente, ha contato fin qui anche il blocco dei licenziamenti (anche nel confronto internazionale).Il Centro studi ha fatto anche un punto sugli investimenti, sottolineando «il crollo della loro componente pubblica (in costante flessione dal 2011)» ed evidenziando come «la componente privata si è risollevata, anche grazie agli effetti positivi del Piano Industria 4.0».
Il flusso di investimenti però non è servito a fermare l’emorraggia di imprese. Un tasto dolente è il saldo negativo per le attività produttive: una stima «prudenziale» della variazione per gli anni 2017-2020 indica una contrazione superiore alle 32mila unità. Il numero delle entrate di nuove imprese sul mercato è divenuto «di gran lunga inferiore a quello delle uscite, ovvero i processi di formazione di nuove imprese non sono più in grado, diversamente dal passato, di garantire l’espansione della base produttiva» si legge nel rapporto. Nel 2020 questo fenomeno si è accentuato: la stima indica appena 3.300 iscrizioni, contro quasi 12 mila cessazioni.