Una donna passa davanti a uno dei punti vendita di H&M a Pechino - Ansa
Le grandi aziende della moda e le catene dell’abbigliamento americane ed europee sono le prime vittime economiche della crisi diplomatica in corso tra la Cina e l’Occidente. Lunedì con un’azione concordata Stati Uniti, Unione europea, Gran Bretagna e Canada hanno annunciato sanzioni per il mancato rispetto dei diritti umani nello Xinjiang, la regione autonoma nordoccidentale dove da anni – secondo diversi osservatori internazionali – il regime cinese perseguita la minoranza musulmana degli uighuri. Pechino ha subito varato ritorsioni. E da martedì sui media cinesi è partita una campagna che invita al boicottaggio delle aziende occidentali dell’abbigliamento che hanno manifestato la loro preoccupazione per la situazione dello Xinjiang.
Nel mirino della televisione di Stato cinese Cctv e del giornale (sempre di Stato) in lingua inglese Global Times sono finite per adesso soprattutto la svedese H&M e l’americana Nike, perché online sono state ritrovate le dichiarazioni con cui, un anno fa. spiegavano di avere verificato che non ci fossero aziende dello Xinjiang nelle loro catene di fornitura.
Più in generale sono sotto attacco tutte le aziende che hanno aderito alla Better Cotton Initiative (Bci), la maggiore organizzazione non profit che si occupa della sostenibilità della filiera del cotone. Bci lavora in 23 Paesi, dove verifica che il cotone sia prodotto nel rispetto dell’ambiente e dei diritti umani così che le aziende – sempre più attente ai temi della sostenibilità – possano essere sicure di offrire ai clienti un prodotto “buono”. Da marzo del 2020 l’organizzazione ha sospeso le licenze sul cotone prodotto nella regione dello Xinjiang dopo avere preso atto che «la situazione nella regione impedisce che si possa fare un’attività di assicurazione e licenza credibile».
In particolare report internazionali come quello dell’Australian Policy Institute e del comitato del Congresso americano sulla Cina avevano scritto poche settimane prima dell’esistenza di campi di lavoro forzato per le minoranze musulmane. La Cina produce il 22% del cotone mondiale e l’84% di quel cotone arriva proprio dalla Xinjiang.
Un lavoratore di etnia uighura al lavoro in una fabbrica di cotone a Yarkand, nello Xinjiang - Ansa
Per la Cina le accuse di mancato rispetto dei diritti umani nello Xinjiang sono «infondate». Mercoledì, in audizione alla Commissione Esteri della Camera, Li Junhua, ambasciatore cinese in Italia, ha detto che d’altra parte il rispetto dei diritti umani è «qualcosa che non si può definire dall’esterno di un Paese, ma è il popolo di quel Paese a poterlo definire» e ha aggiunto che, per esempio, «i diritti umani in Italia hanno delle caratteristiche e in Cina hanno altre caratteristiche».
Concretamente il blocco delle licenze del Bci impedisce di comprare il cotone della Xinjiang ai membri dell’organizzazione non profit. Tra questi ci sono i colossi dell’abbigliamento mondiale, come la giapponese Fast Retailing (proprietaria di Uniqlo) o Inditex (che controlla, tra gli altri marchi, Zara) e noti marchi italiani come Diesel, Benetton e Ovs. Per molte di queste aziende un boicottaggio sul mercato cinese è un rischio enorme. Per H&M la Cina è il quarto principale mercato, Inditex ha ben 2.318 centri produttivi in Cina, per Uniqlo, Nike e Adidas il mercato cinese rappresenta circa un quarto delle vendite.
Oltre alle iniziative di boicottaggio la Cina, secondo quanto spiegato in un editoriale non firmato sul Global Times, intende muoversi direttamente sulla Better Cotton Initiative: «Sollecitare la Better Cotton Initiative a ridefinire il cotone dello Xinjiang diventerà la nostra leva realistica per vincere la battaglia».