Gianni Agnelli e Cesare Romiti in una foto del 1998 - Ansa
Dei ventidue anni di Cesare Romiti alla guida della Fiat tutti ricordano la marcia dei 40mila. Cioè il corteo del 14 ottobre 1980 organizzato dai dirigenti per riaprire Mirafiori e le altre fabbriche, occupate da 35 giorni dai sindacati che protestavano contro un piano da 14mila licenziamenti. L’inedita marcia dei “colletti bianchi” in un’Italia sfiancata dal terrorismo brigatista funzionò. Le fabbriche ripartirono e i licenziamenti furono sostituiti da cassa integrazione. «Ma il futuro dell’azienda e dei dipendenti era salvo» come disse anni fa lo stesso Romiti in un’intervista ad Avvenire. Quella marcia ha fatto la storia delle relazioni industriali in Italia. E questo è stato Romiti, morto ieri a 97 anni: un manager più abile nelle relazioni e nella diplomazia che nella definizione di piani industriali e strategici.
Il dirigente d’azienda che più di ogni altro ha segnato la storia economica dell’Italia nell’ultimo quarto del secolo scorso non era nato ricco. Cresciuto a Roma, Romiti era il secondo dei tre figli di un impiegato delle Poste e una casalinga. A 17 anni rimase orfano di padre. Sua madre si trovò a mantenere la famiglia con la pensione da vedova. Per laurearsi in Economia e commercio il giovane Romiti lavorava di giorno e studiava di notte. La sua formazione da manager fu tutta nella finanza. Iniziò come impiegato di banca, poi passò alla Bombrino Parodi Delfino di Colleferro, grande azienda di esplosivi. Lì Romiti si occupò della fusione con la Snia Viscosa e in questa operazione ebbe modo di lavorare con la Mediobanca di Enrico Cuccia.
Fu il punto di partenza di una carriera importante nelle aziende dello Stato con l’Iri, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale. Prima in Alitalia, di cui nel 1970 diventò direttore generale e poi amministratore delegato. Quindi nell’Italstat, la società di Stato per la progettazione e costruzione delle infrastrutture. Nel 1974 entrò alla Fiat, su segnalazione di Cuccia, come direttore finanziario. «Quando arrivai trovai una situazione da mettersi le mani nei capelli – raccontò anni dopo –. Valletta era morto da 6 anni lasciando una liquidità enorme: enorme. Eppure, eravamo in novembre e non c’erano nemmeno i soldi per le tredicesime. In sei anni avevano fatto delle cose…».
Alla Fiat, Romiti si occupò di rimettere ordine nella finanza dell’azienda. Dal 1976 divenne uno dei tre amministratori delegati del gruppo, assieme a Umberto Agnelli e a Carlo De Benedetti, che però se ne andò nel giro di quattro mesi. Per la Fiat gli anni Ottanta furono eccezionali. Vincenzo Ghidella, a capo di Fiat Auto, riuscì a restituire all’azienda un prestigio industriale straordinario, con il lancio di auto di successo come la Panda, la Uno, la Croma, le Lancia Delta e Thema, l’Autobianchi Y10.
La visione di Ghidella e Umberto Agnelli era però diversa da quella di Gianni Agnelli e Romiti. L’Avvocato lo disse apertamente nel discorso ai 150 dirigenti di Fiat del 25 novembre 1988, quando congedò Ghidella: «Mi sono trovato di fronte ad un conflitto sull’interpretazione del ruolo della Fiat Auto all’interno del Gruppo. Per Ghidella prevale una visione autocentrica, per me la Fiat è una holding industriale e la direzione di tutte le attività del Gruppo deve rimanere nella holding stessa».
Agnelli affidò a Romiti il comando dell’intera Fiat. Non funzionò. L’esperienza di Fiat in ambiti diversi dall’auto – dalle costruzioni all’editoria, passando per la chimica, i treni, le telecomunicazioni e il turismo – è stata fallimentare, e difatti tutte le attività “non auto” sono state via via cedute. Della Fiat degli anni ‘90 si ricordano modelli infelici, come la Stilo e la Palio. Quando Romiti si congeda dall’azienda, al compimento dei 75 anni nel 1998, Fiat è nella fase iniziale di quella crisi che la porterà a un passo dalla bancarotta nel 2004. Per ridarle un futuro servirà un manager poco diplomatico e molto operativo come Sergio Marchionne, che infatti Romiti non ha mai amato.
L’esperienza da finanziere-imprenditore di Romiti dopo la Fiat è stata avara di successi. Tra liquidazione e patto di non concorrenza il dirigente ha incassato dagli Agnelli 204 miliardi di lire, in parte in liquidità e in parte in azioni della holding Gemina. Denaro usato per prendere il controllo Impregilo, cioè il gruppo delle costruzioni che lui stesso aveva creato con la Fiat, e Hdp, poi diventata Rcs, di cui Romiti è stato presidente dal 1998 al 2004. Gradualmente però Romiti e i suoi figli Maurizio e Pier Giorgio sono stati estromessi da Gemina, poi da Impregilo, infine anche da Aeroporti di Roma.
Alla fine Romiti è tornato a dedicarsi alle relazioni costituendo nel 2003 la Fondazione Italia Cina, un’organizzazione che favorisce i rapporti tra Roma e Pechino. È stata l’ultima grande avventura del manager romano. In una lunga intervista a Tv2000, nel 2017, Romiti ammise che il grosso rimpianto della sua vita è stato il tempo tolto alla famiglia: «Ho lavorato così tanto che non ho conosciuto né i miei figli né i miei nipoti. Adesso è nata una pronipote da circa 3 anni e solo oggi mi sono accorto di cose che non sapevo esistessero, non sapevo come un bambino reagisce, com’è un bambino e come cresce: il primo bambino che veramente conosco è stata la mia pronipote».