Davanti al boom degli incassi da controlli nel 2009 Raffaello Lupi non si agita troppo: «L’Agenzia delle Entrate ha fatto - e bene - il suo mestiere – osserva il docente di di- ritto tributario all’università Tor Vergata di Roma –. Ma non dà la suddivisione, che sarebbe un elemento importante, fra gettito da redditi che erano nascosti al Fisco e quello da attività palesi, ma che si configurano come cambiamenti di regime».
Che intende dire? Faccio degli esempi: un’azienda che tariffa a prezzi maggiorati da un prestanome straniero per portare capitali fuori, la deduzione di spese non relative all’attività svolta, le differenze d’inventario nella grande distribuzione dove magari un’impresa dichiara ammanchi da furti superiori al reale, l’anticipo di una perdita vantata con una ditta che è fallita l’anno seguente.
E quindi? Voglio dire che, normalmente, il Fisco contesta situazioni che sono sotto gli occhi, come nei casi mediatici tipo Valentino Rossi o Del Vecchio. Mentre i redditi davvero nascosti restano lì. Ed è importante capire che i 100-120 miliardi di euro di evasione stimata sono in gran parte nascosti.
Tipo quelli dei 6.715 evasori totali scoperti nel 2009? Ma no! Quelli sono 'poveracci' tutto sommato, anche se magari meno di una volta. Cosa sono 6.715 casi davanti ai 4,5 milioni di partite Iva attive in Italia? È raro che uno davvero ricco sia un evasore totale. Una cosa è certa: un’impresa con più di 50 o 100 milioni di fatturato ha quasi la certezza di essere controllata ogni anno, una sui 5-10 milioni sa invece di poterla fare franca. Inoltre il punto è che quando uno si accorge che quel che dichiara è contestato dal Fisco, ma se non dichiara spesso non succede nulla, tende a scivolare verso la menzogna, occultando quote magari modeste in percentuale, ma in assoluto importanti, di ricavi e redditi.
È insomma il sistema che va ripensato? Prima di tutto bisogna superare la distinzione manichea fra onesti e disonesti, una semplificazione utile solo a politici e giornali. L’evasore non è un infame, quasi sempre è comunque un cittadino che crea ricchezza e che tende a tenerne una parte per sé. È chiaro che c’è anche una moralità diversa fra individui ma, oltre che su questa, occorre lavorare per creare un sistema che eviti sacche di convenienza fiscale.
Un nobile intento. Ma come tradurlo nella realtà? Partiamo dal quadro generale. Il gettito tributario è sui 400 miliardi l’anno: se quelli recuperati sono 8, bisogna chiedersi da dove arrivano gli altri 392. Premesso che 120 circa derivano dalle trattenute sul lavoro dipendente, il resto arriva in gran parte da imprese che hanno una struttura amministrativa 'rigida'.
Cioè? È una struttura rigida che impone di rispettare le norme tributarie e fa venire fuori la ricchezza. Anche le dimensioni hanno il loro peso: se ho 3 dipendenti è più facile che ne tenga uno 'in nero', se ne ho 50 è difficile che ne tenga sommersi 10. E, pur senza generalizzare, l’organizzazione delle imprese italiane, più orientate a un controllo familiare, tende a rallentare la crescita dimensionale anche per non rinunciare alla maggiore facilità di nascondere qualcosa al Fisco.
Le Entrate come dovrebbero impostare allora la loro attività? Ho letto che intenono potenziare gli accertamenti sintetici che monitorano in parallelo redditi e capacità di spesa: è giusto, specie sul piano politico, perché va al di là di quella lacerazione sociale che è invece un po’ alla base dello strumento, comunque valido, degli studi di settore che mettono in contrapposizione una categoria contro l’altra. In sintesi, sarei per fare tante verifiche molto veloci, insultare di meno chi non paga le tasse e trovare i modi di andargliele a chiedere. Manca, fra politici, economisti e giuristi della materia, la consapevolezza che il grosso del gettito arriva dalle rigidità aziendali e che il Fisco dovrebbe intervenire dove esse non arrivano. Facendo meno accademia, invece, su quello che è dichiarato.