La recessione americana è ben peggiore del previsto. Secondo gli ultimi dati forniti ieri dal governo Usa, l’economia si è infatti contratta a un tasso annuo del 6,2% durante gli ultimi tre mesi del 2008 – dopo una perdita dello 0,5% nel periodo precedente – segnando non solo una sostanziale rilettura al ribasso rispetto al calo del 3,8% precedentemente anticipato e allo scivolone del 5,4% previsto dagli economisti, ma anche il più grave capitombolo dall’inizio del 1982. Nel primo trimestre di 27 anni fa, il Pil era sceso del 6,4%: un dato effettivamente peggiore di quello attuale che, però, nei rilevamenti conclusivi previsti nelle prossime settimane potrebbe ancora riservare revisioni negative. Per ora, comunque, i dati trascinano al ribasso l’espansione economica americana 2008 ad appena l’1,1% di crescita dall’1,3% della lettura precedente, mandando un chiaro segnale che la situazione – la più debole dal +0,8% del 2001 – è decisamente peggiorata rispetto all’anno precedente, quando il Pil aveva registrato un 2% di aumento. Non sorprende certo che la contrazione sia un effetto del crollo della spesa al consumo che, da sola, conta per ben due terzi del Pil Usa, anche se gli acquisti degli americani hanno segnato una flessione del 4,3% – contro il 3,5% inizialmente determinato –, il minimo dal 1980.
Scivolone degli investimenti. Preoccupa comunque anche il fatto che gli investimenti abbiano subito uno scivolone del 21,1%, il massimo dal 1975, e che le esportazioni – dopo una crescita dello 0,3% nel trimestre precedente – siano crollate del 23,6%, il tasso peggiore dal 1971, a indicare che la richiesta di beni americani sia evaporata con il deterioramento delle condizioni economiche mondiali. La notizia della debolezza economica Usa – seppur «ammorbidita» dall’aumento del 6,7% in spesa e investimenti federali – ha avuto un duro colpo sull’apertura di Wall Street, scesa con gl’indici ai livelli più bassi da 12 anni, che ha poi recuperato un po’: -0,6% il Dow Jones e -0,8% il Nasdaq a mezz’ora dalla chiusura.
Il «peso» di Citigroup. A contribuire al timore che la recessione in atto possa protrarsi più a lungo del previsto è però stato anche l’annuncio dell’accordo tra Citigroup (-35% in Borsa poco prima della chiusura) e il Tesoro americano per la conversione in azioni ordinarie dei titoli privilegiati in mano al governo. Il nuovo aiuto governativo non richiede un’immediata iniezione di capitale nell’istituto bancario da parte dei contribuenti americani, anche se ulteriori investimenti pubblici - come ha sottolineato ieri il direttore finanziario del gruppo, Gary Crittenden - non sono esclusi a priori. A preoccupare, per ora, è il fatto che il governo americano abbia deciso di assumersi un maggior rischio; nel convertire fino a 25 miliardi di dollari di titoli privilegiati in azioni ordinarie aumenta infatti la propria partecipazione in Citigroup al 36%, una mossa vista da molti come una parziale nazionalizzazione, e che in cambio del loro diritto di voto è disposto a sacrificare circa 2 miliardi di dollari in dividendi. Secondo il Tesoro, comunque, la transazione è necessaria. La conversione – che non coinvolge l’intero ammontare delle azioni privilegiate che Citigroup ha concesso al governo in cambio dei 45 miliardi di dollari di aiuti ricevuti – sarà limitata al livello che anche gli altri azionisti che detengono titoli privilegiati accetteranno, così che la quota pubblica non supererà quella privata, e rafforzerà la qualità della base capitale della Banca così da rimuovere ogni incertezza e ripristinare la fiducia degli investitori nella società. Un elemento chiave per cercare di aggiustare l’intero sistema bancario americano.