La famiglia di sarte afghane al lavoro - Per gentile concessione della famiglia Nooruddin
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
La famiglia Nooruddin, ad oggi, è una famiglia originaria di Kabul tutta al femminile, che ora vive e lavora in India. Il loro papà è morto, anni fa, con una rara forma di leucemia, diagnosticata all’ospedale di Jamhuriat.
Dopo questo lutto, le donne di casa Nooruddin si sono trasferite, con i buoni risparmi di famiglia, nell’area rurale oltre Kabul, proprio per tentare di portare avanti, in una zona più tranquilla, il loro mestiere di sarte di primo livello, con commissioni anche dall’estero. Rasha, una delle figlie, ricorda quei giorni di grande ansia, perché, in quella società fortemente patriarcale, un nucleo lavorativo di sole donne era un’anomalia mal tollerata anche nell’Afghanistan senza i talebani.
«Il nostro futuro – racconta - con la morte di nostro padre, diveniva incerto, poiché, nonostante l’azienda sia stata guidata, da sempre, dalla maestria sartoriale di nostra madre, va precisato che papà, con la sua presenza, teneva lontano da noi lo stigma di un’impresa a prevalenza femminile». Rasha sottolinea che dalle sue parti, da anni e anni, non viene attribuito nessun valore economico al lavoro delle donne. Questo innescava inevitabilmente una forte emarginazione sociale e dai processi decisionali familiari.
Tuttavia Rasha aggiunge che questa intollerabile ‘regola’ afghana non ha mai trovato spazio nella sua famiglia, grazie alla visione lungimirante del padre. «Lui ci considerava - noi figlie femmine - delle vere e proprie regine, nonostante la nascita di quattro bambine sia sempre stata guardata, anche dai suoi stessi amici, come una punizione del cielo. Mio padre, grande lettore dei romanzi occidentali, sorrideva a questi pregiudizi, perché capace di ironia, che è merce rara nella mia terra, soprattutto per il gretto immobilismo maschile, che non vede di buon occhio neanche una sana risata». Rasha sorride anche lei pensando forse alle battute di suo padre. E continua dicendo: «Papà ha sempre ricompensato lautamente il lavoro delle sue figlie e ha permesso a tutte noi un’istruzione privata, sentendosi finalmente libero, con l’arrivo degli americani, di poter acquistare una buona auto per nostra madre. Voleva inoltre che parlassimo un buon inglese per poter, un giorno, scoprire il resto del mondo».
Questa storia di donne, situata intorno a Kabul, ad un certo punto si interrompe. Come in tutte le storie esiste un prima e un dopo e, in questo caso, il tempo del dopo coincide con una data che l’Afghanistan, a differenza del resto del mondo, non può dimenticare. Nell’agosto del 2021, a piccoli passi, non solo è stato tolto il sorriso alle donne, ma è stata imprigionata anche la loro femminilità, azzerando il comparto della moda e della sartoria artigianale. Quelle stesse donne, che già prima vivevano una difficoltosa condizione nel mondo del lavoro, ora venivano private dei diritti fondamentali. Qui il racconto dettagliato di Rasha ci riporta a quelle ore.
«All’improvviso – racconta - sono arrivati i giorni del nostro paradiso perduto, di quel paradiso di cui, in casa, si parlava a proposito del poema di Milton, ma che è così estraneo alla nostra cultura religiosa. Le ultime ore degli americani, a Kabul, sono state un inferno in terra, di cui qualcuno vociferava, ogni tanto, guardando alcune strane mosse dei militari, ma nessuno davvero sospettava un’azione repentina di quel tipo. Peraltro, nella mia zona, le notizie arrivavano in ritardo». Rasha qui allude a sua sorella maggiore, la quale comunicava con loro da Kabul, utilizzando whatsapp, e diceva che la capitale, a differenza delle altre regioni, era inespugnabile e ben difesa.
I fatti politici, a cui poi accenna Rasha, sono ben noti a tutti, ma cos’è accaduto a loro dopo quell’agosto 2021? Lale, la sorella maggiore, inviò d’improvviso un messaggio con scritto: «Le bandiere nere sventolano in città». Possibile che 300mila uomini di uno degli eserciti più potenti, si erano arresi ai talebani, senza far nulla? Per le donne Nooruddin iniziarono ore di panico per raggiungere Lale a Kabul. Le vie principali erano bloccate e il diritto internazionale, in quei giorni, taceva. Si poteva partire, però, con mezzi di fortuna, aggrappandosi alle organizzazioni umanitarie del Paese, con qualche scusa, come quella di dover consegnare urgentemente degli abiti a una delle famiglie più in vista della capitale, strettamente, ad oggi, legata ai talebani. Era vero? Certo che no, ma la moglie di quest’uomo d’affari, oggi decisamente colluso col regime talebano, ha dato una mano alle sorelle Nooruddin, con la loro mamma (amica di questa potente famiglia dalle idee ben diverse).
La storia di fuga è simile a molte altre, affonda le sue radici nel sottobosco di conoscenze in chiaroscuro in Pakistan, dove erano già attivi i commerci della famiglia di Rasha. Un viaggio lungo e poi la luce a Nuova Delhi e l’inizio, giorno dopo giorno, di una nuova vita grazie all’incontro, semicasuale, con una famiglia indiana di origini francesi.
Poi una nuova casa, fino ad arrivare al lavoro nella startup Silaiwali, già esistente dal 2019, in quel luogo, come impresa sociale. Da quel 2021, quella stessa startup si è trasformata, diventando un’impresa indirizzata alla salvezza di donne afghane, con buone competenze nel mondo sartoriale. Le donne che vi hanno trovato più accoglienza sono di etnia hazara (le più in difficoltà di tutte, da sempre, nella terra afghana).
A Nuova Delhi quell’impresa indiana è diventata soprattutto un’impresa di afghane, che hanno trovato il dono della solidarietà. Che cosa producono oggi queste sorelle insieme alle loro colleghe? Principalmente bambole, ma anche vestitini per i bimbi disagiati – tantissimi – della grande città indiana.
Loro non gradiscono essere sotto i riflettori, rilasciare interviste, soprattutto perché, nonostante la salvezza dell’accoglienza, il loro status è molto incerto: l’India ha un pericoloso e profondo vuoto legislativo relativo ai rifugiati (compresi gli afghani). Come noto, il governo di Delhi non ha mai dato una chiara spiegazione sul perché non abbia firmato la Convenzione del 1951. Secondo l’Alto commissario Onu per i rifugiati (Unhcr) gli afghani e le afghane sarebbero più di 20mila in India. Nella maggior parte dei casi non possiedono documenti ed è l’Unhcr a rilasciare visti e carte di identità, che però le autorità indiane non ritengono ufficiali. «Al momento – conclude Rasha - per il resto del mondo, siamo delle invisibili, ma siamo accolte, ci sentiamo protette, anche se, in parte, in forma clandestina. Lavoriamo con passione e creatività e utilizziamo quella lingua inglese, che è stata la nostra salvezza, in molti casi, proprio per non sentirci spaesate. Potremmo esprimere parole di odio verso l’abbandono dell’Occidente e in particolare verso il tradimento americano, ma a che cosa servirebbe?».