mercoledì 1 marzo 2023
Disabile a causa di un razzo dei taleban finito sopra la sua casa, a Kabul era la capitana della nazionale basket in carrozzina e attivista. Poi la fuga a Bilbao, dove ora gioca in prima Divisione
Nilofar Bayat

Nilofar Bayat - Per gentile concessione di Nilofar Bayat

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Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all'8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

Non abbiamo mai disfatto le valigie / sognavamo nella lingua sbagliata”. Due versi della poetessa Warsan Shire, figlia di profughi, capace di raccontare il dolore “di chi fugge verso il confine solo quando vede che tutta la città è in fuga”. La stessa sorte è toccata a Nilofar Bayat, una tra i 2 milioni e 800mila rifugiati afghani nel mondo, arrivata in Europa ad agosto 2021, tra le attenzioni dei reporter internazionali, perché attivista per i diritti delle donne e delle persone con disabilità e capitana della nazionale di basket in carrozzina.

Proprio per queste ragioni, dopo la ripresa del potere da parte dei taleban, ha potuto scappare dall’Afghanistan, dovendo lasciare indietro tutta la sua famiglia, perché invitata a unirsi a un club molto prestigioso a Bilbao: «So di essere stata fortunata, molto più di altri miei amici e conoscenti», ma questo privilegio non significa che il dolore per questa sua decisione sia scomparso.

«Per la prima volta posso giocare in una squadra mista - racconta -, con anche degli uomini come compagni di squadra, tra cui c’è anche mio marito. Siamo nella stessa squadra, ci sosteniamo in campo e fuori ed è fantastico».
Dentro la storia di Nilofar le rivoluzioni culturali e di vita sono state dirompenti, ma lei continua a sognare nella sua lingua madre e la nostalgia per il suo Paese è così forte, «che ci sono giorni in cui credo di non farcela a resistere». Eppoi quello stigma di rifugiata attaccato addosso: «Spesso per gli altri siamo solo poveri che hanno bisogno di cibo!» e non persone che vivono per coltivare relazioni umane, amicizie, per vivere aspirazioni professionali, sentirsi al sicuro e condividere gioie.

Nilofar, oggi, gioca per il Bidaideak Bilbao BSR, una squadra di basket per disabili nella città basca, nel Nord della Spagna. Ha trent’anni, si è laureata in Legge nella capitale afghana e nel suo confidarsi non fa sconti, perché dovrebbe dopo quello che ha passato? Quando aveva solo due anni, un razzo sparato dalle milizie taleban colpì la casa dove viveva con la sua famiglia. Da quel momento a causa delle ferite riportate alla colonna vertebrale, Nilofar ha una disabilità permanente, peraltro come suo marito, che invece è finito sopra una mina.

I suoi ricordi più belli e gioiosi sono legati al basket in carrozzina, che si è rivelato per Nilofar un incredibile strumento di emancipazione e di autonomia: «Giocando ho conosciuto nuovi amici, ho potuto visitare alcune città fuori dall’Afghanistan, partecipando a tornei e sono diventata consapevole delle mie abilità e della mia forza», spiega ancora la giovane donna.
«Per me, oggi, questa esperienza sportiva è incredibile: quest’anno finalmente posso giocare legalmente a basket. Il livello di gioco è altissimo, nel campionato di prima Divisione della Spagna. All’inizio era come se avessi perso un po’ la fiducia in me stessa, perché vedevo i miei compagni come dei professionisti e avevo la sensazione di non essere alla loro altezza. Mio marito mi chiedeva: ‘Che succede? In Afghanistan giocavi in modo diverso, come ti senti?’ Qui tutto è nuovo per me: il campionato, gli allenamenti, i coach, gli avversari invitati a Bilbao per tornei e partite amichevoli: è tutto molto sfidante. È un’esperienza unica: tra l’altro ora mi alleno anche due volte con la squadra di Terza Divisione dove posso giocare anche per 40 minuti a partita e prepararmi e crescere per la Prima Divisione dove riesco a competere e a giocare ancora per pochi minuti proprio perché il livello è molto alto; ma mi sto allenando duro e ho scelto questa città, Bilbao, proprio per quello che può darmi questo sport, nonostante il resto della mia famiglia, che ora è riuscita a raggiungere l’Europa, viva a Francoforte sul Meno, in Germania».

L’inizio con il basket, però, è stato tutt’altro che semplice: nel 2013 quando Nilofar ha iniziato gli allenamenti suo zio e suo fratello erano contrari: “Dopo il basket, cosa le chiederete di abbandonare? Le chiederete di non andare in ufficio e restare a casa come le altre donne?”, rispondeva loro suo padre, l’unico della famiglia a sostenerla.
E lo stesso è capitato mentre studiava a Kabul: suo fratello tutte le sere andava a prenderla in università, perché la situazione era molta pericolosa per le strade della capitale, e non solo perché lei era donna. E tutte le sere le domandava: “Perché vuoi studiare?”
Anche in quel caso Nilofar non ha ceduto e ha proseguito, assecondando le sue aspirazioni di realizzazione di se stessa, e ha lottato per esse come poi avrebbe fatto per i diritti degli altri. Dopo la laurea ha, infatti, iniziato a lavorare con il Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan per 11 anni a sostegno delle donne e delle persone con disabilità.

E ora dopo 28 anni di vita a questa intensità, con cadute e ripartenze, la sua “casa si è trasformata nella bocca di uno squalo”, parafrasando ancora i versi potenti della poetessa Warsan Shire, e Nilofar che tanto vorrebbe tornarci alla sua vita di Kabul prima dell’arrivo dei taleban sa benissimo che quello squalo sta già inghiottendo tutti i suoi affetti: «Tutti i miei familiari rimasti, i miei amici e le mie compagne di squadre a Kabul sopravvivono. Il regime taleban sta riducendo il mio popolo in uno stato di povertà. Non c’è cibo per tutti e senza la possibilità di lavorare e avere dei guadagni le persone sono costrette in casa. Sono obbligati a pensare solo al loro sostentamento, tutte le conquiste e i diritti che eravamo riusciti a portare avanti negli ultimi 20 anni sono stati spazzati via. Ogni giorno una regola nuova toglie libertà, toglie speranza» ogni giorno la casa di Nilofar e di milioni di altre donne non è più casa ma “è la bocca di uno squalo”.



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