Agenzia Romano Siciliani
Il nuovo vicario del Papa per la diocesi di Roma, che l’8 dicembre riceverà la berretta cardinalizia da Francesco, si presenta. «Sono siciliano, di Agrigento, vengo da una famiglia di contadini. Porto qui la mia storia semplice e vorrei che i parroci, i fedeli di Roma vedessero in me soprattutto il pastore, uno che si mette accanto a loro, li ascolta e insieme con loro cerca di trovare le soluzioni. Spero in questo mio nuovo incarico di crescere spiritualmente e umanamente, perché la Chiesa e la città di Roma, con la loro storia, danno tanti stimoli, certamente anche di più di quello che le mie povere capacità sono in grado di recepire». Monsignor Baldassarre Reina, per la sua prima intervista ad Avvenire, ci riceve nel suo studio d’angolo, nel palazzo del Vicariato. Lo stesso dei cardinali Poletti, Ruini, Vallini e De Donatis, solo per citare gli ultimi predecessori. «Hanno fatto un ottimo servizio a questa Chiesa e al Papa, a partire da don Angelo De Donatis. Spero di emularli».
Dalle finestre arriva il rumore del traffico, a volte anche quello dei lavori del vicino cantiere di piazza San Giovanni. Aspetti di vita ordinaria e straordinaria della Città.
Eccellenza, con che volto si presenta la Chiesa di Roma alla vigilia del Giubileo?
Con il volto di una comunità vivace e capillarmente inserita nel tessuto cittadino, al di là degli inevitabili problemi. Con il volto di chi vuole dare speranza e di chi si prepara ad accogliere i milioni di pellegrini che arriveranno per l’Anno Santo.
Partiamo dunque dal Giubileo. Come vi state preparando?
La Chiesa di Roma, in un certo senso celebrerà il Giubileo due volte. Con il suo varcare la Porta Santa, ma anche con l’accoglienza nelle parrocchie, nelle comunità e nelle famiglie. Le faccio solo un esempio: per il Giubileo dei giovani, dal 28 luglio al 3 agosto, aspettiamo qualcosa come un milione di persone che saranno ospitate quasi interamente nelle nostre parrocchie. Una Chiesa giovane che accoglie i giovani di tutto il mondo.
Qualcuno è preoccupato per la lentezza dei lavori in vista dell’Anno Santo.
Ho partecipato solo a una riunione di un tavolo tecnico a palazzo Chigi e lì si riconoscevano alcuni ritardi, ma c’è stato l’impegno a recuperare. Va ricordato però che la spina dorsale del Giubileo non sono i lavori, quanto piuttosto la proposta di un Dio che è misericordia e che offre a tutti, ma soprattutto agli ultimi una possibilità di riscatto, una speranza nuova.
E quali sono le speranze di una città come Roma?
Speranza è restituire dignità alle persone. Speranza è avere un lavoro dignitoso , una casa senza doversi indebitare per una vita intera, un vivere sociale tranquillo, dove - a partire dal contesto familiare - non ci si senta minacciati. Speranza è fare più attenzione ai giovani che vivono un disagio enorme. Purtroppo si fa uso di droghe nella nostra città a partire da 12 anni. Le sostanze chimiche stanno penetrando in maniera capillare in tutti i quartieri e la droga arriva a casa facilmente. Non possiamo restare in silenzio, occorre fare un’azione incisiva in questo campo.
Servono più don Coluccia?
Conosco bene don Antonio. Ha tutto il nostro appoggio perché fa un lavoro straordinario. Ma non dimentichiamo i tanti parroci che ogni giorno ascoltano centinaia di situazioni come queste. Perché non c’è solo il ragazzo che spaccia o si droga, ma anche le loro famiglie che vivono in sofferenza estrema. I nostri sacerdoti, specie quelli delle periferie, sono lì in prima linea a fronteggiare migliaia di situazioni, spesso lasciati soli dalle istituzioni. Ci sono tanti don Coluccia nel nascondimento.
È un’accusa alla politica?
Abbiamo sempre dialogato con le istituzioni. È chiaro che ci sono cose che non vanno e come Chiesa le abbiamo dette e continueremo a dirle. Ma abbiamo anche il dovere di metterci accanto ai nostri governanti per pensare insieme strade nuove e assumersi ognuno le sue responsabilità. Ad esempio: per combattere la povertà educativa le istituzioni possono assicurare le scuole, ma non possono pensare al dopo scuola per i figli degli immigrati o dei poveri. Cosa che noi possiamo fare e facciamo.
Molti pensano che questa città sia amministrata sempre peggio. Lei che idea ha?
L’idea di una città molto confusa, forse perché ha perso la sua identità. Da un parte abbiamo un centro storico che è stato svuotato della sua valenza simbolica e dall’altro le periferie che scoppiano.
In questo senso come inquadrare la decisione del Papa di eliminare il settore centro della diocesi?
Non parlerei di eliminazione, ma partirei da Evangelii gaudium e da uno dei principi più cari a papa Francesco in questi 11 anni: la Chiesa in uscita. Se in questa Chiesa in uscita non siamo capaci di rivedere l’organizzazione territoriale non si capisce come viviamo questa missione. L’idea del Papa è quella di una maggiore interazione tra le periferie e il centro. Le parrocchie del centro non possono non avvertire i disagi delle periferie, così come le periferie non possono non partecipare della bellezza del centro. Quindi più che eliminare il centro, io direi integrare i settori della diocesi, includendo anche il centro.
C’è stato però qualche mugugno, specie da parte dei parroci.
Capisco la reazione dei parroci, trattandosi di un struttura consolidata da decenni. Ma qualche sera fa sono stato a San Giovanni dei Fiorentini in pieno centro storico. Ho incontrato la comunità parrocchiale e il Consiglio pastorale e nessuno ha fatto riferimento alla questione. Abbiamo parlato del territorio, degli ammalati, della solitudine. I fedeli non avvertono questo tipo di problema.
Qualcuno all’indomani della riforma del 6 gennaio 2023 scrisse che il vicegerente aveva ricevuto più poteri del cardinale vicario. Intanto, è esatto? E che cosa succederà con la sua nomina a vicario di Roma?
Quella costituzione aveva come punto di forza la collegialità dei vescovi ausiliari, compresi il cardinale vicario e il vicegerente. Ciò che ci ha chiesto il Papa è di lavorare insieme. Non ci sono delle figure preminenti rispetto alle altre, se non il cardinale vicario, perché poi il vicegerente è colui che coordina il lavoro del consiglio episcopale e dei singoli uffici. Quale sarà l’assetto da ora in poi non lo so, perché aspetto le indicazioni del Papa e nel momento in cui mi saranno date le renderò pubbliche. Ma insisto sul lavorare insieme. Questa è una diocesi in cui il lavoro di squadra è fondamentale. Stiamo puntando molto sugli organismi di partecipazione. Fermo restando che il vescovo è il Papa, la diocesi di Roma non può essere governata sul versante del Vicariato da un uomo solo al comando. C’è bisogno di un gruppo coeso di persone e la che abbiano una visione di Chiesa condivisa con il Santo Padre e la portino avanti.
Tra le novità dell’ultimo anno c’è anche l’istituzione di un Ufficio per la cultura. Qual è la sua funzione?
Questo ufficio, diretto dal professor don Giuseppe Lorizio, è stato pensato soprattutto perché la Chiesa di Roma dialoghi con quella cultura che non si identifica nella visione cristiana. Quindi è un discorso di Chiesa in uscita anche questo e una bella sfida. Non è facile, ma raccogliamo l’indicazione del Concilio di essere una Chiesa in dialogo, non una Chiesa che pensa di occupare tutti gli spazi. Anche dal dialogo con il mondo contemporaneo dipende anche il futuro del nostro essere cristiani.
Anche perché avanza la scristianizzazione.
Sì ma il perimetro di questa crisi non riguarda solo la diocesi di Roma, essendo comune a tutto il cristianesimo occidentale. E comunque, guardando le parrocchie, uno si accorge di quanta vivacità c’è. Le nostre comunità fanno un lavoro straordinario, capillare. Poi i problemi ci sono, ma non c’è una caduta di speranza. Benedetto XVI ci ha avvertito: «Prepariamoci ad essere minoranza». Una categoria biblica che non dobbiamo mai dimenticare è quella del “piccolo resto”. Nella storia sacra, di fronte a momenti di crisi, Dio ha sempre ricominciato dal piccolo resto. Forse anche in questo tempo il Signore ci chiede di essere un piccolo resto, motivato, fedele, convinto, umile. E da lì il Signore opererà prodigi.
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