L'ingresso della Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme (foto Gambassi)
Si sente odore di pane fresco nella viuzza a due passi dalla porta di Jaffa, nella città vecchia di Gerusalemme. Un gruppetto di ragazzi con gli zaini in spalla sta per entrare a scuola e rischia di far cadere un anziano con la kefiah sulla testa e il bastone in mano. La strada porta il nome del palazzo che la chiude. È la via del patriarcato latino, dove si trova la “casa-madre” dei cattolici legati a Roma non solo di Israele e Palestina ma anche di Giordania e Cipro. Oltre il grande cancello d’ingresso una targa ricorda il primo Papa che «è ritornato dopo venti secoli di storia là, dove Pietro è partito» (come si disse allora): Paolo VI. E spiega in latino e arabo che si fece «pellegrino nella sacra Terra Santa» nel gennaio 1964.
«Non c’è parola di quelle pronunciate da papa Montini durante lo storico viaggio che non sia ancora attuale», spiega l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa mentre percorre il lungo corridoio al primo piano del complesso in cui sono affissi i ritratti dei pastori che si sono succeduti alla guida del patriarcato dal suo ripristino voluto a metà Ottocento da Pio IX. Dal giugno 2016 questa “diocesi” è sede vacante. Perché Pizzaballa, bergamasco d’origine e frate minore francescano con un passato da Custode di Terra Santa per oltre undici anni, è amministratore apostolico. «La visita di Paolo VI del ’64 va letta alla luce del clima di cambiamento ecclesiale che il Concilio alimentava con ampie visioni e attese. E ci dice ancora oggi che, quando la Chiesa si sta ripensando, serve tornare alla concretezza della fede, ossia al mistero dell’incarnazione che in Terra Santa si è attuato».
Pace era stata la parola più pronunciata nel pellegrinaggio di 54 anni fa. Quanto la pace nel mondo passa da questa regione?
Il vocabolo “pace” risuona ogni volta che si fa riferimento alla Terra Santa. E può risultare anche stucchevole dal momento che qui appare lontana dalla realtà, almeno dal punto di vista politico e sociale. È vero, la pace globale passa da Gerusalemme perché è il cuore del mondo. E quanto accade nel cuore ha ripercussioni in tutto il corpo e viceversa.
Ma qui spirano venti contrari alla pace. PaoloVI gridò dalla terra di Cristo il suo “no” alle guerre.
Ieri come oggi le difficoltà sono dovute agli uomini. La politica è assente. Restano marcate le divisioni. Si tocca con mano una miscela pericolosissima di fede, politica, identità nazionali che rendono quasi impossibile alzare lo sguardo. Questi intrecci non vanno negati. Però non possono essere elevati ad assoluto contro l’altro.
Paolo VI invocò un equo riconoscimento dei diritti per i cristiani. Un appello ancora valido?
Sicuramente. Siamo pochi: in Israele 130 mila; a Gerusalemme 8mila; in Palestina 45mila. E parlo di cristiani. I cattolici sono meno della metà. C’è chi fugge. E sono innegabili le difficoltà connesse alle crisi politiche ed economiche. Tuttavia non diventeremo il Nord Africa o la Turchia. Burrasche e terremoti ci sono, ma non sono tali da sradicare la “pianta” cristiana.
C’è da preoccuparsi?
Umanamente sì, però la Chiesa è guidata da qualcun altro e non dalle nostre strategie umane.
La Terra Santa è luogo di faticosa convivenza fra le confessioni cristiane. Paolo VI lanciò da qui l’espressione «diversità nell’unità».
Spesso in Terra Santa si vedono più gli ostacoli che non gli aspetti positivi. Tuttavia il dialogo ecumenico non può prescindere da Gerusalemme che è la città di tutti i cristiani. Un autentico condominio in cui ogni comunità trova casa. E aggiungerei che è anche la giusta cartina tornasole per valutare in modo tangibile, reale le relazioni tra le Chiese. Se guardiamo alla vita quotidiana, gran parte delle famiglie è mista. L’unica fede cristiana prevale sull’appartenenza alle diverse denominazioni anche se non mancano i disagi pastorali, a partire dai differenti calendari. A livello istituzionale, e mi riferisco a patriarcati e gerarchie, è più complesso. Siamo lontani dalla piena unità che comunque necessita di armonia e di visioni riconciliate della storia. In quest’ottica Gerusalemme è un laboratorio unico che funziona nonostante tutto, ma con tempi che non sono i nostri.
Storico fu l’abbraccio fra PaoloVI e il patriarca ecumenico Atenagora. Oggi papa Francesco insiste sull’amicizia come via ecumenica privilegiata.
Quell’incontro ha inaugurato una nuova stagione che sembrava inimmaginabile. E in cinquanta anni il rapporto fra le Chiese è cambiato di 180 gradi. Per capirlo cito un fatto. Montini e Atenagora si incontrarono dopo secoli di divisioni sul Monte degli ulivi. Nel 2014 Francesco e Bartolomeo I si sono trovati davanti all’edicola del Santo Sepolcro, nella Basilica che custodisce la memoria di Cristo ma anche le nostre contraddizioni. È il segno del cammino compiuto.
Il pellegrinaggio di Paolo VI segnò una svolta nel rapporto con il mondo ebraico.
Considero quella visita una sorta di preparazione a Nostra aetate, la dichiarazione conciliare del 1965 che ha mutato radicalmente le relazioni fra Chiesa cattolica ed ebraismo. Sono stati abbattuti muri secolari che nessuno ha più intenzioni di ricostruire.
E oggi il termometro che cosa segna?
A livello mondiale, non c’è febbre. Qui qualche linea si avverte, soprattutto per questioni politiche.
Quanto è importante mantenere lo status quo a Gerusalemme?
È fondamentale finché non si trova un criterio nuovo. Non è l’ideale. E regola una sorta di cessate il fuoco fra le comunità. Quindi innescare sul terreno fatti che accrescono l’ostilità alimenta il pregiudizio e incrina la cultura dell’incontro.
E le relazioni con l’islam?
Sono state sofferte negli ultimi anni. Quanto accaduto in Siria e Iraq è stato uno choc. L’islam non è tutto Daesh. Ma una certa ideologia non nasce dal nulla ed è stata anche accompagnata. Questo crea anche qui sospetti e paure benché nelle scuole, nelle istituzioni, nelle associazioni cristiani e musulmani lavorino bene assieme.
Paolo VI invitò a prendere coscienza dei propri peccati, sia del passato sia del presente. A Nazaret invocò perdono e rinuncia alla vendetta.
Il perdono è un’attitudine costante della vita cristiana. Il che non significa chiedere scusa sempre e per tutto o ripetere: “Scusate se esistiamo…”. In Terra Santa il rapporto fra giustizia e perdono è sentito soprattutto dai cristiani che considerano il perdono la più alta forma di giustizia. Ma ragionare di questo in un’area dove le ferite sono ancora profondamente aperte diventa uno sforzo eroico.
Montini ha lasciato in eredità alla Terra Santa tre opere-segno. Che cosa rappresentano oggi?
Sono l’Università di Betlemme, l’istituto ecumenico Tantur e la scuola per ragazzi sordi Effetà. Rimandano alla cultura, al dialogo e alla carità che si fa abbraccio dei deboli. Effetà è una struttura unica nel suo genere, davvero preziosa, che deve essere sostenuta perché tocca una delle piaghe più presenti in Palestina, la sordità. L’istituto svolge uno straordinario servizio di promozione umana che riguarda non solo i ragazzi ma anche le famiglie e l’intera società abbattendo pregiudizi e barriere. È sorprendente vedere i bambini che entrano totalmente persi ed escono capaci di dialogare, di parlare, di avere un rapporto sereno con la società. Anche questo testimonia in modo concreto la presenza imprescindibile dei cristiani in Terra Santa.
COME SOSTENERE LA SCUOLA DEI BAMBINI SORDI DI PAOLO VI
Un gesto concreto di solidarietà per celebrare la canonizzazione di Paolo VI, il primo Papa pellegrino in Terra Santa che a Betlemme nel 1964 volle si realizzasse un istituto pontificio specializzato nell’educazione e nella riabilitazione audiofonetica di bambini sordi. La scuola Effetà da quasi 50 anni accoglie ogni giorno oltre centosessanta bambini di varie religioni e di diverse zone della Palestina. Ad Effetà entrano bambini sordi, isolati, emarginati ed escono ragazzi autonomi, capaci di relazionarsi con la società ed affrontare coraggiosamente il futuro. “Avvenire” insieme con la Fondazione Giovanni Paolo II invitano ad aiutare i bambini di Betlemme in ricordo di Paolo VI. È possibile sostenere i ragazzi di Effetà attraverso:
- Bonifico bancario intestato a Fondazione Giovanni Paolo II utilizzando il seguente Iban IT04I0539005458000000092116 (ricorda di inserire anche il tuo indirizzo nel campo causale)
- Bollettino su conto corrente postale n. 95695854 intestato a Fondazione Giovanni Paolo II, via Roma, 3 - 52015 Pratovecchio Stia (AR). Causale: “Per i bambini di Effetà Betlemme”
- Carta di credito o PayPal sul sito www.sostienieffeta.org
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