Il coraggio per cambiare ha un nome: si chiama umiliazione. Quella di lasciarsi prendere a schiaffi la coscienza dal "tu per tu" con chi nella carne è stato umiliato. Per chi ha voluto lasciarle divampare dentro, bruciano ancora le parole pronunciate durante l’incontro in Vaticano sulla «protezione dei minori» da quella donna africana che ha raccontato l’olocausto vissuto, segnato da ripugnanti violenze inflitte da un prete pedofilo che l’ha poi liquidata come bugiarda. Lei il suo calvario l’ha raccontato dal vivo, con brutale onestà, per la prima volta in un’aula sinodale, davanti all’assemblea di vescovi di tutto l’orbe cattolico. Ed è stato proprio questo il paradigma di un passaggio necessario. Perché è solo dall’incontro tra chi si lascia umiliare dall’umiliazione sofferta dall’altro che può scaturire un possibile reciproco riscatto, per una comune redenzione e per avere il coraggio di non omettere più, di non nascondersi mai, e di non giustificarsi mai più davanti al crimine degli abusi nella Chiesa.
Come questo può avvenire cristianamente, e come può essere possibile un cambiamento profondo e concreto, lo si è visto emergere nei tre giorni in Vaticano. Non l’armageddon di chi aveva paventato che il Papa e i vescovi capitolassero sul terreno viscido degli abusi. Facendo spalancare gli occhi e le orecchie ai riluttanti, agli smemorati lontani o vicini rimasti alle palafitte dei tabù e dell’ignavia omertosa, il viaggio della barca di Pietro attraverso le acque putride della pedofilia clericale ha traghettato in realtà la Chiesa in altre sponde.
È stato un atto di lealtà, di coraggio. Un atto di fede, soprattutto. Nella quale l’intera comunità ecclesiale è stata chiamata a ricapitolarsi sulla natura autentica della sua missione. Come indicato nell’ouverture delle tre giornate dal cardinale filippino Tagle: «Voglio sottolinearlo: è un atto di fede». Perché «il mondo ha bisogno di testimonianze autentiche della risurrezione di Cristo che ci avvicinino alle sue ferite come primo atto di fede. Se vogliamo essere operatori della guarigione, dobbiamo rigettare qualsiasi tendenza che appartenga a un pensiero mondano che rifiuta di vedere e toccare le ferite degli altri, quelle ferite che sono le ferite di Cristo nella gente ferita». Questo significa che ciascuno deve assumersi personalmente la responsabilità di portare la guarigione a questa ferita inferta al Corpo di Cristo, che tutti devono assumere l’impegno di fare tutto quanto sia possibile. Tutti. Nessuno può dire più "non sapevo", nessuno può più dire che la questione non lo riguarda, tutti debbono agire: vescovi, clero, chiedendo aiuto ai laici.
Attraverso un perfezionamento di norme, la loro messa in pratica, e un vademecum per agire concretamente, la portata di quanto è iniziato con questo summit è proprio quella di essere tutti chiamati in causa, capaci di sentirsi responsabili, di rendere conto, di essere trasparenti, per decretare la morte di una cultura di morte e di insabbiamento. Così il mini-concilio si è smarcato anche dalle trappole del giustizialismo e dai meccanismi dell’autodifesa che non vuole affrontare direttamente le conseguenze di questi crimini, ma neppure ha puntato a salvaguardare l’immagine della "ditta-Chiesa".
E allora la Chiesa si è giocata qui la sua credibilità? Sì, se l’è giocata a viso aperto, sub Petro e cum Petro, collegialmente. Il Papa non ha giocato d’azzardo, ha ripristinato in senso conciliare il plurale maiestatis. La Chiesa, pur con tutte le sue gravi mancanze, si è lasciata interrogare e ha indicato la strada per affrontare questa delittuosa piaga. In un mondo in cui i dati raccapriccianti del dramma sono in continua crescita – basta sfogliare le ricerche diffuse sulle percentuali di abusi che si commettono, soprattutto in famiglia – la Chiesa ha dato un esempio. Gli altri? Possono prenderlo.