sabato 1 dicembre 2012
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Il nome suona familiare: Amis. È un acronimo che sta per «Amici delle isole Solomon». Quell’arcipelago di roccia e corallo – noto in Italia come Isole Salomone – che si estende su ventisettemila chilometri quadrati tra Vanuatu e Papua Nuova Guinea, in Oceania. Quasi mille isole, 349 delle quali abitate da 550mila persone. Lì, agli estremi confini della terra, dal 1999 un salesiano valtellinese porta alla popolazione indigena il sorriso di don Bosco: è monsignor Luciano Capelli, nato nel 1947 a Tirano in provincia di Sondrio, diocesi di Como. Parroco nell’isola di Guadalcanal, costruttore e animatore di scuole e ospedali, presenza instancabile accanto agli ultimi. E nel 2007 un nuovo ministero: quello di vescovo nella diocesi di Gizo, isole occidentali. Gli Amis, si diceva. Certo, perché Capelli è un trascinatore. Uno di quelli che con il suo entusiasmo smuove non solo le montagne, ma anche decine di amici lombardi verso quei luoghi lontanissimi. «Siamo partiti nel 2002, eravamo in otto. Quest’anno abbiamo concluso la dodicesima spedizione superando le venti presenze». A parlare è Giulio Visini, valtellinese doc, coordinatore e anima degli Amis. È lui a presentare il gruppo. «Siamo in gran parte della provincia di Sondrio, ma abbiamo coinvolto anche giovani bergamaschi di Osio Sopra e Pedrengo. Loro volano alle Solomon tra luglio e agosto: là incontrano i loro coetanei e cercano di formarli come animatori degli oratori. Noi vecchietti invece ci fermiamo di più, anche cinque mesi consecutivi, e diamo una mano per costruire». Là infatti manca tutto, o quasi: scuole, ospedali, centri di aggregazione. Quel poco che c’è, sgorga dal cuore del vescovo Capelli e degli Amis lombardi. Che in un decennio hanno realizzato più di quanto sorto in settant’anni di protettorato inglese e nei successivi trenta di Stato indipendente. Guidato da un governo corrotto, continuamente minato da prevaricazioni sfocianti in lotte intestine. Ma valtellinesi e bergamaschi son gente concreta e tenace, ci vuol ben altro a spaventarli. I loro problemi alle Solomon, semmai, sono quelli di come costruire al minor prezzo. «La manodopera indigena costa pochissimo – annota Visini –, circa l’equivalente di 50 centesimi all’ora». Ben diverso per i materiali («a volte bisognerebbe trasferirli in zattera per 500 chilometri di mare, non se ne parla nemmeno»). Ma la soluzione è (si fa per dire) dietro l’angolo. «Portiamo quel che serve dall’Italia – spiega il capo degli Amis –: spedire container è decisamente più economico».​
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