I delegati sono stati divisi in gruppi di lavoro - Siciliani
Le parole da mettere al bando: “si è sempre fatto così”, immobilismo, individualismo, lettura negativa. Quindi paura. Le parole, invece, da promuovere: Chiesa in uscita, ascolto, cammino, compagni di strada, sinodalità, conversione pastorale, sguardo positivo sui fenomeni sociali. Parlando con i mille delegati che nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma, stanno partecipando alla Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, il primo cambiamento che si coglie è quello del vocabolario. E poiché per chi crede in Cristo le parole sono importanti, non si tratta solo di un cambiamento formale. In questo caso, verrebbe da dire, la forma è sostanza.
Milena Libutti, delegata della diocesi di Palermo, mette l’accento sul «momento veramente straordinario per la Chiesa che stiamo vivendo. Un tempo che segnerà importanti cambiamenti». L’esempio più lampante è la diversità di sguardo. «Stiamo leggendo questo tempo con occhi positivi e siamo testimoni di sinodalità. In questi giorni sediamo allo stesso tavolo, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici uomini e donne. E parliamo tutti in virtù di un ministero battesimale. Mi sembra bellissimo poterci confrontare così. Solo cinque anni fa una cosa simile non riuscivamo neanche a immaginarla. E allora di tutto questo bene dobbiamo essere testimoni anche all’esterno. Il senso di comunità che respiriamo qui possiamo offrirlo al mondo come antidoto all’individualismo imperante. Perché ancora oggi il Signore semina il bene nella storia dell’uomo».
La parola che Simona Pancaldo, delegata della diocesi di Albano, mette in evidenza è domanda. Anzi, domande. «Dobbiamo chiederci che cosa serve oggi per entrare in relazione con l’uomo di questo tempo. Riconoscere i bisogni spirituali e le urgenze. E rinnovare il modo di entrare in relazione con le persone». In altri termini «la Chiesa deve cambiare il proprio linguaggio e le prassi di evangelizzazione». Come? «Uscendo per portare il Vangelo là dove ci si dovrebbe occupare del bene di tutti. Tornare ad abitare i luoghi della cultura, della politica, della società civile, essere capaci di influenzare le decisioni fondamentali».
Ma per fare questo, serve appunto una conversione pastorale. Marcello Musacchi, della diocesi di Ferrara-Comacchio, nell’Assemblea svolge la funzione di facilitatore. Deve cioè mettere tutti a proprio agio nello scambio di idee intorno al tavolo. «Sta emergendo – sottolinea – una triplice conversione: soggettiva (la nostra idea di cristianesimo deve essere più aperta e meno radicata al “si è sempre fatto così”), comunitaria (“perché la prima forma di comunicazione, soprattutto verso gli altri, è la comunità e quindi se noi non viviamo per primi la comunità, le nostre parole perdono efficacia”) e poi strutturale. È un impegno grande. In sostanza dobbiamo cambiare il nostro modo di entrare in contatto con gli altri. Fare meno gli arrivati ed essere soprattutto persone comunicano cominciando dall’ascolto». Secondo Musacchi «si ascolta ancora poco». Un aspetto che ne influenza altri. Il facilitatore lo esprime così: «Siamo stanchi di essere fuori dalla cultura, dobbiamo ricominciare a dire delle cose importanti sul piano sociale e politico. Ma per fare questo bisogna percorrere le strade polverose delle crisi esistenziali e delle grandi domande della gente».
Alla necessità di concretezza, dopo tre anni di lavoro, si richiama anche Marco Peduzzi della diocesi di Biella. «Vedo l’urgenza di far fronte all’emorragia di uomini e donne che si allontanano dalla comunità ecclesiale e più in generale proprio dalla fede cristiana. Negli anni Settanta del secolo scorso uno slogan in voga era “Cristo sì, la Chiesa no”. Oggi il no si è esteso anche a Cristo. Di qui la necessità di puntare tutto nuovamente sulla centralità di Gesù, dando valore ai germogli che già ci sono».
Per Nunzia Lestingi, delegata della diocesi di Fabriano-Matelica, il fenomeno degli abbandoni è particolarmente accentuato tra i giovani, ma è un segnale che va interpretato. «Secondo me ci stanno chiedendo di uscire fuori dalla nostra comfort zone (la parrocchia, i gruppi, le chiese di pietre), per raggiungerli nei luoghi in cui essi trascorrono le loro giornate, per imparare i loro linguaggi e ascoltare ciò che vogliono. Che poi è esattamente quello che faceva Gesù, andando in mezzo alla gente». Il cantautore Ultimo ha detto di non conoscere nessuno che vada in Chiesa o voti. «Non stento a crederlo – riprende Nunzia –. Tradotto, vuol dire che i luoghi istituzionali come possono essere le chiese e i posti del voto i giovani non li riconoscono più come propri. Sicuramente c’è da fare un grande lavoro di cultura, che attingendo al tesoro della tradizione, sappia parlare a queste persone con un linguaggio nuovo. Non dobbiamo avere paura di essere come i primi cristiani che hanno annunciato il Vangelo in un mondo pagano».
Don Paolo Pala, delegato della diocesi di Tempio-Ampurias, riassume così ciò che finora è emerso. «Abbiamo preso coscienza, come dice il Papa, di essere in un cambiamento d’epoca, di essere minoranza, ma soprattutto della necessità di farci compagni di strada degli uomini e delle donne del nostro tempo. Questo ci porta verso un’azione pastorale di risposta, piuttosto che di proposta. Risposta – spiega il sacerdote – a tutte le domande che emergono: dalla questione della vita a quella di come intendere la fede, se in maniera privatistica o comunitaria». Parole nuove dunque. Perché la paura e la nostalgia del passato non abbiano più l’ultima parola.