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La presentazione del progetto giubilare “Prendersi cura” voluto dal Consiglio dei giovani del Mediterraneo - Avvenire
Pellegrini di speranza lo sono i giovani. «Ma pellegrini di speranza lo sono soprattutto coloro che vivono la povertà, la guerra, le discriminazioni, i cambiamenti climatici», racconta Tina Hamalaya. Lei è libanese ed è la segretaria del Consiglio dei giovani del Mediterraneo, il “Sinodo” laico e under 35 voluto dalla Cei che da un anno e mezzo unisce le sponde del grande mare. Quaranta i ragazzi che lo formano, tutti cattolici, indicati dalle Chiese delle diverse rive e rappresentanti di tre continenti: Europa, Africa e Asia. A loro si deve il progetto che declina il Giubileo in riscatto sociale e che lanciano alle Conferenze episcopali e ai Sinodi delle Chiese orientali dei Paesi affacciati sul bacino. “Prendersi cura. Una famiglia per ogni comunità” è la sfida (e il titolo) dell’iniziativa presentata ieri mattina a Roma che chiede alle diocesi, alle parrocchie e alle realtà ecclesiali di “adottare” migranti, rifugiati, richiedenti asilo ma anche famiglie in condizioni di disagio, madri in difficoltà, donne vittime di tratta, giovani. «Insomma tutte quelle situazioni di fragilità e di vita drammatiche che, con numeri sempre più preoccupanti, caratterizzano il nostro tempo», dice Tina. Protagonisti proprio i giovani che saranno i primi a “sporcarsi le mani”. «C’è bisogno di mettere al centro del cammino giubilare l’accoglienza e la solidarietà», sprona Tina a nome del Consiglio.
«Una proposta che è davvero un conforto, una di quelle carezze di misericordia che legittimano la speranza», spiega il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, da sempre accanto all’organismo dei giovani che sta accompagnando in prima persona. Nell’Anno Santo, sottolinea Baturi, «il Papa chiede di trasformare i segni dei tempi in segni di speranza. I segni dei tempi sono quelli di un Mediterraneo lacerato da discordie e da conflitti. Abitare l’oggi con la cura significa trasformare ciò che altrimenti sarebbe un motivo di dolore in un motivo di fiducia che comincia da noi». Il progetto viene illustrato in queste settimane dagli “ambasciatori” della consulta alle Chiese del Mediterraneo. Tre hanno già aderito. Sono il vicariato apostolico di Beirut, la diocesi di Trieste e l’arcidiocesi di Brindisi-Ostuni. «La nostra è una città dell’accoglienza - racconta la 29enne Nicholle Salerno, originaria proprio di Brindisi e una dei tre delegati della Cei nel Consiglio -. Era il 1991 quando le strade si erano riempite di albanesi arrivati attraversando il mare. La Chiesa e le istituzioni avevano chiesto aiuto alla gente. E ne era scaturito uno straordinario slancio di generosità». Una «vocazione» su cui adesso fa leva l’arcidiocesi guidata da monsignor Giovanni Intini che, annuncia Nicholle, «sta studiando un gemellaggio con il vicariato apostolico di Beirut. Perché il Libano è un Paese-simbolo dell’accoglienza». Come ha dimostrato negli ultimi anni aprendo i suoi confini a un milione di sfollati della Siria. «È un impegno che si fa servizio ai più fragili e che vede noi giovani essere messaggeri di fraternità nelle nostre terre», aggiunge Nicholle.
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