Lo storico Guido Formigoni
«Il nuovo che avanza è ancora molto magmatico. Comprendere che alla base di questa mobilità politica ed elettorale ci sono un grande disagio e un’inquietudine forte è basilare per non scollarsi dalla realtà». Guido Formigoni entra fra le pieghe delle parole “politiche” del cardinale Gualtiero Bassetti, quelle che appaiono come un’analisi sull’Italia degli ultimi mesi. Docente di storia contemporanea allo Iulm di Milano e autore di numerosi studi sul cattolicesimo politico italiano, Formigoni commenta il cuore dell’intervento del presidente della Cei con cui ha introdotto martedì mattina i lavori della seconda giornata dell’Assemblea generale dei vescovi italiani.
Il cardinale Bassetti ricorda il centenario dell’Appello ai Liberi e Forti di don Luigi Sturzo per chiedere di «portare alta la divisa evangelica pure in politica». Che cosa aspettarsi da questa «nobile tradizione»?
«La “nobile tradizione” del cattolicesimo politico è un filone che oggi è impossibile riproporre in termini organizzativi (come dimostra il fatto che nessuno ci sta più nemmeno provando...). Quindi c’è tutto da reinventare. La domanda vera credo sia se leggendo questa storia centenaria si può cogliere l’insegnamento di un metodo culturale profondo che sia capace di far fermentare insieme l’appello evangelico e la lettura della storia concreta, producendo sintesi creative e propositive. Del resto Sturzo nel 1919 non intendeva applicare deduttivamente nessuna ricetta ideologica, ma aveva colto nelle iniziative e nelle battaglie concrete sparse nelle periferie di paese un problema di crisi dello Stato liberale, da cui occorreva uscire con l’investimento di energie nella nuova forma dei partiti politici popolari, che lo riformassero profondamente. Applicò quindi una tradizione culturale cattolica che insisteva sul primato della società, dei corpi intermedi, dei comuni e delle famiglie non più all’intento di polemizzare contro lo Stato moderno, ma a riformarlo. Oggi è possibile fare un’analoga operazione? Possiamo cogliere nel magistero di papa Francesco lo spunto per un’insopprimibile esigenza evangelica di fratellanza e di socialità capace di “costruire un popolo”, per farne un perno di una revisione realistica e creativa del modello della globalizzazione, secondo lo spunto dell’“ecologia integrale”, che chiede di rivedere profondamente le regole dei rapporti tra le persone e tra gli esseri umani e l’ambiente naturale? Questo sarebbe forse uno spunto non banale per rilanciare una cultura che nel Paese ha dato qualcosa di rilevante.
I cattolici votano e sono presenti in tutti (o quasi) i partiti, come lascia intendere il cardinale. Irrilevanza o pluralismo?
«Direi che il pluralismo è comprensibile e addirittura normale: esisteva anche quando c’era un partito dell’unità tendenziale dei credenti. Il problema per non scivolare nell’irrilevanza è non esorcizzarlo per paura delle divisioni e del confronto, anche serrato. A mio parere questa paura insieme con il rimpianto di una mitica unità mai davvero esistita ha contribuito a portare la Chiesa al silenzio. Se nelle comunità cristiane – a livello capillare come a livello più ampio, fino a quello nazionale – non si hanno luoghi e momenti in cui ciascuno possa dire quale è la propria opinione sul mondo e come vede le coerenze tra il Vangelo e le proprie scelte, non si creeranno mai occasioni di discernimento e di “pedagogia politica”, come afferma il cardinale. Occorre contaminarsi con il piano mobile e spesso contraddittorio della realtà, sperando che questo faccia riflettere di più le persone e porti chi viene a Messa la domenica a porsi qualche domanda su che cosa fa il lunedì nei suoi percorsi di vita quotidiana».
Il presidente della Cei sottolinea la fine dei «vecchi partiti» e l’affermazione di «nuovi soggetti», di un «nuovo che avanza nella politica italiana» anche a causa del «disagio sociale». Come leggere l’invito alla Chiesa a fare sì che chi si impegna in politica sua un «nostro figlio prediletto»?
«Il nuovo che avanza è ancora molto magmatico e contraddittorio. Comprendere che alla base di questa mobilità politica ed elettorale c’è un grande disagio e un’inquietudine forte è basilare per non scollarsi dalla realtà. Poi occorre sostenere vocazioni all’impegno, certo. E quando queste nascessero, la questione non è mai semplice, perché bisogna far sentire tutti “figli prediletti” senza dare deleghe in bianco a nessuno, senza coinvolgere la comunità cristiana in vincoli impropri, e tenendosi sempre aperto uno spazio di discussione e verifica che è essenziale. Anche nelle nuove formazioni politiche c’è chi pensa che basta farsi ricevere da un vescovo per legittimarsi un poco di più... Mi pare riduttivo».
Il cardinale chiede al nuovo esecutivo di conoscere la nazione perché non basta «avere un governo per poter guidare il Paese». Che cosa vuole dire?
«Credo sia uno spunto da precisare, ma potenzialmente importante. Vuol forse dire che la Chiesa non si occupa solo di singoli problemi, ma anche e prima di tutto della qualità della democrazia e della convivenza. È capace di parlare, di suggerire, di consolare, di incentivare comportamenti e pratiche di bene comune. Qui potrebbe significare che non basta mettere assieme forze politiche emergenti in un compromesso spartitorio, ma occorre appunto trovare accordi e convergenze sostanziali sulla direzione verso dove andare, che siano frutto di ascolto e di una comprensione non solo della emotività del momento, ma delle tendenze di fondo e delle necessità vere di un Paese».
L’Italia è segnata dalla crisi, da un «sentimento di rancore diffuso, di indifferenza alle sorti dell’altro, di tensioni e proteste». Ma il Paese è «sano», ribadisce il cardinale. Allora come far emergere la «disponibilità per il bene comune»?
«Questo è un punto importante. Non so se sia una mera scommessa dell’ottimismo per principio. Posso condividere l’ipotesi che ci siano riserve di solidarietà concreta, di impegno quotidiano, di sentimenti positivi verso il mondo, di semplice e convinta dedizione familiare e civica che non appaiono in una comunicazione (anche nei nuovi media) che tende a sovrarappresentare gli aspetti polemici e arrabbiati. Però il punto nodale è che questa riserva di energie è sempre a rischio di consunzione e dispersione, se non ci sono agenzie che si preoccupino quotidianamente di valorizzarle, di metterle in rete, di farle rientrare visibilmente in progetti più ampi ispirati appunto a quella espressione oggi di difficile comprensione, che è appunto bene comune. Una democrazia vive di queste capacità che dovrebbero essere proprie di una classe dirigente all’altezza del proprio ruolo e che non bisogna stancarsi di organizzare e attivare. Anche le comunità cristiane hanno un compito potenzialmente straordinario in questa direzione: si pensi alla valorizzazione anche civico-politica delle straordinarie risorse del volontariato, che rischiano invece spesso di scomparire nelle periferie della realtà se lasciate solo all’orizzonte dell’incontro con il bisogno singolo».
Come valorizzare oggi il legame dell’Italia con l’Europa, caro a Bassetti?
«L’Europa è orizzonte cruciale: nel clima mondiale attuale nessuno Stato europeo piccolo o medio – e nemmeno grande, diciamola tutta – potrà salvarsi e scongiurare il declino demografico, economico e culturale da solo. Mi pare questione di un’evidenza solare. Ma contemporaneamente bisogna comprendere che non è una dimensione che si imponga da sola, non è un progetto ovvio, non è un dato di fatto che retoricamente basti invocare. È invece un progetto che occorre sempre rimotivare, ridefinire, ricostruire in termini di politiche concrete e in termini di comunicazione di valori: se passa l’idea, come mi pare sia largamente passata, che l’Europa è solo l’arcigna custode dei conti, siamo perduti. L’Europa dovrebbe essere l’Europa dell’integrazione delle diversità contro i fondamentalismi, della convinzione dell’equità e della convergenza sociale contro gli individualismi, della capacità di affrontare i conflitti con il dialogo contro le identità violente. Saremo capaci di rivitalizzarla in questa direzione?».