sabato 9 novembre 2024
Il Consiglio dei giovani del Mediterraneo a Palermo per riflettere su pace e accoglienza. Baturi: sempre dalla parte dei deboli. Perego: l’ordine è respingere, come testimonia il caso Albania
A Palermo i ragazzi del Consiglio dei giovani del Mediterraneo promosso dalla Cei

A Palermo i ragazzi del Consiglio dei giovani del Mediterraneo promosso dalla Cei - Gambassi

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«Noi siamo sempre dalla parte dei più deboli». Il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, inaugura a Palermo l’evento “Non c’è pace senza accoglienza”. E quando dice “noi”, intende la Chiesa, compresa quella italiana, e il mondo cattolico. Il suo è un invito alla «solidarietà», una delle declinazioni della parola «accoglienza» che, aggiunge Baturi, richiede anche «cultura» e «amicizia» facendosi prossimi «alle sorelle e ai fratelli incontrati per strada». Poi il monito: «La fede non è esclusione, ma capacità di includere». L’arcivescovo originario di Catania dà il benvenuto - in videocollegamento - ai ragazzi giunti nel capoluogo siciliano dalle diverse sponde del grande mare che formano il Consiglio dei giovani del Mediterraneo. È il laboratorio di fraternità e di impegno ecclesiale e civico voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo a Firenze nel 2022. A formarlo quaranta delegati, tutti under 35, delle Chiese legate al bacino che tornano a incontrarsi per lanciare il loro grido di apertura agli ultimi in vista del Giubileo. «La nostra esperienza di giovani di tre continenti diversi dimostra che la coesistenza è possibile, nonostante le differenze di contesti da cui proveniamo: differenze economiche, sociali, politiche», racconta Gabriel Cassar Tabone, originario di Malta, in rappresentanza dei tredici ragazzi presenti a Palermo.

L'arcivescovo Giuseppe Baturi in collegamento all'incontro del Consiglio dei giovani del Mediterraneo a Palermo

L'arcivescovo Giuseppe Baturi in collegamento all'incontro del Consiglio dei giovani del Mediterraneo a Palermo - Gambassi

Un appello che arriva mentre nella Penisola la questione migranti divide. «Oggi la parola d’ordine è “respingimenti”. Ne sono un segno i campi che l’Italia ha realizzato in Albania e che sono come prigioni», spiega l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes. È lui che conclude la prima delle tre giornate di lavori, ospitata dalla Facoltà Teologica di Sicilia. E che denuncia un «Mediterraneo che sanguina». Per «i morti: 50mila in fondo al mare in trent’anni»; per «i respingimenti in Tunisia e Libia che riportano le persone nei campi o nei deserti»; per «le guerre o le dittature con sofferenze, torture e morti». Eppure, aggiunge l’arcivescovo, «attorno a noi sentiamo ripetere: “bombardiamo”, “ignoriamo”, “chiudiamoci”, “non riconosciamo”. Invece un solo vocabolo dovremmo pronunciare: “vergogniamoci”». Perego ribadisce che le «navi delle Ong non possono essere ostacolate: salvano la gente». E chiama in causa anche l’Europa: per il nuovo «patto sull’immigrazione che porterà un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati» e per il «trattamento differenziato» fra gli ucraini in fuga dalle truppe russe e «gli altri richiedenti che scappano da crisi e guerre nel mondo, non meno cruente e drammatiche». Poi, guardando al Consiglio, dice che «sono questi ragazzi a chiedere di costruire una cultura dell’incontro, come indica papa Francesco». Da qui la necessità di «lavorare di più anche nelle parrocchie italiane dove, secondo un’indagine Cei, la metà dei fedeli assidui è contraria all’accoglienza», rivela Perego. «E perché allungare i tempi per ottenere la cittadinanza italiana? Dovremmo essere felici di avere nuovi cittadini. Ed è la solidarietà che porta alla pace, quindi anche alla sicurezza delle nostre città».


A Palermo i giovani del Mediterraneo si ritrovano sui passi di due “testimoni”. Il primo è don Pino Puglisi, il prete assassinato da Cosa Nostra nel 1993, che «aveva spalancato le porte della parrocchia a bambini e anziani, a poveri ed ex detenuti e che in nome dell’accoglienza è stato ucciso per mano mafiosa», afferma Maurizio Artale, presidente del Centro d’accoglienza Padre Nostro che il sacerdote beato aveva fondato nel suo quartiere: Brancaccio. E l’altro è Giorgio La Pira, nativo della Sicilia e profeta della riconciliazione fra i popoli, che vedeva «nell’accoglienza una delle sfide più alte per il Mediterraneo», sottolinea Patrizia Giunti, presidente della Fondazione La Pira che, con l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II, forma a Firenze la rete Mare Nostrum cui la Cei ha affidato il Consiglio dei giovani.

I ragazzi del Consiglio dei giovani del Mediterraneo nella Cattedrale di Monreale

I ragazzi del Consiglio dei giovani del Mediterraneo nella Cattedrale di Monreale - Gambassi

«Lo straniero e il povero non ci fanno paura», ripete don Mauro Frasi, parroco di Santa Maria al Giglio a Montevarchi, nella diocesi di Fiesole, che racconta della sua «canonica senza chiavi», con le porte aperte, diventata «casa di tutti», a cominciare dai dimenticati. «Cari giovani, aiutateci ad avere coraggio e a superare le resistenze ecclesiali e politiche», dice don Frasi al Consiglio del Mediterraneo. «L’accoglienza dovrebbe essere il cuore di ogni comunità parrocchiale», sostiene don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro a Pistoia, località finita più volte nel mirino per i migranti. Quindi la provocazione: «I migranti sono una risorsa per il nostro Paese. Dovremmo dire loro: “Benvenuti, venite...”». La Chiesa è in prima linea. «Nei decenni la Caritas Italiana ha contribuito a far crescere un sistema governativo di accoglienza», chiarisce Manuela De Marco.


Parla di «dovere dell’accoglienza» l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che sprona a ritenere l’«ospitalità un criterio di azione, a maggior ragione se ci si dice cristiani». Infatti, prosegue, non si tratta «di nascondere i migranti ma di integrarli». Perché, «là dove c’è povertà, trova terreno fertile la criminalità». E il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, presidente dell’episcopato siciliano, sollecita «un’accoglienza fatta bene, con ordine e intelligenza. Del resto è facile che chi non crede nell’accoglienza possa usare taluni episodi negativi per esigere di alzare muri».

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