Papa Francesco durante la Messa celebrata domenica scorsa al termine del summit contro gli abusi (Ansa)
Colpevole per definizione. È il teorema ormai sposato dai media sulla Chiesa e gli abusi di sacerdoti e religiosi, misfatti spesso purtroppo autentici e verificati ma attorno ai quali viene costruito un castello di accuse che dipingono l’istituzione intera come un blocco unico irreparabilmente segnato da collusioni, coperture, silenzi. A questo sguardo deformante si è ribellato Peter Steinfels, scrittore e giornalista, a lungo “senior religion reporter” del New York Times. Quando in pieno agosto, e alla vigilia di un altro appuntamento importante per la Chiesa come il viaggio del Papa in Irlanda, montò l’indignazione per il rapporto del Gran Giurì della Pennsylvania dal quale emergevano responsabilità individuali e collettive per 70 anni di abusi gli sembrò sospetta l’adesione globale senza dubbi o critiche alle tesi esposte dal magistrato. In realtà nessuno aveva letto le centinaia di pagine del dossier, accontentandosi di una sommaria sintesi. Ma a Steinfels non piacciono le verità preconfezionate. Lo studio integrale dell’inchiesta gli ha aperto uno scenario decisamente più complesso: singoli fatti documentati, il teorema assolutamente no. E la differenza non è da poco, come ha scritto sulla rivista liberal americana Commonweal. E come conferma ad Avvenire.
Il “Philadelphia Report” è un documento credibile o no?
Il dossier presentato dal Gran Giurì della Pennsylvania fa due distinte accuse. La prima è che centinaia di preti abusarono sessualmente di bambini e adolescenti dal 1945. La seconda riguarda vescovi e altri rappresentanti della Chiesa che avrebbero dovuto impedire questi abusi e che invece non lo fecero, anzi, li coprirono. Mi sono concentrato sulle accuse estreme e radicali del rapporto contro pastori e funzionari: sul dossier si legge che «tutte» le vittime «furono spazzate via», che gli esponenti della Chiesa «non fecero nulla» mentre «i preti stupravano ragazzini e ragazzine » salvo «nascondere tutto» per «proteggere gli abusatori e le loro istituzioni ». Il rapporto non distingue tra decenni, vescovi, diocesi e motivazioni. Affronta come un blocco unico e non mutevole oltre 70 anni nei quali ci sono stati cambiamenti nella comprensione di quanto fosse esteso il fenomeno dell’abuso sessuale e del suo devastante impatto sulle vittime, cambiamenti nella società americana e nella cultura, così come nella Chiesa. Considero questa seconda accusa grossolanamente fuorviante, irresponsabile, imprecisa, e ingiusta.
Come può essere sicuro di un’affermazione così perentoria?
Il dossier del Gran Giurì dice che furono ignorate «tutte» le vittime e che i rappresentanti della Chiesa non fecero «nulla» per proteggerli. Le mie conclusioni sono basate su informazioni fornite nelle stesse 884 pagine del rapporto. Per esempio, nel 2002 i vescovi statunitensi disposero che qualunque sacerdote fondatamente accusato di molestie nel passato o nel presente andasse rimosso da tutti gli incarichi. Lo stesso dossier mostra che il 30-40% dei preti coinvolti non furono mai accusati di abuso fino a dopo il 2002, quando furono rimossi dal loro ministero. Ho verificato altri casi prete per prete, a volte confrontando le centinaia di relazioni del dossier con più di 450 pagine di informazioni aggiuntive e correzioni specifiche sottoposte dalle diocesi. Queste ultime sono semplicemente allegate al rapporto senza alcuna apparente risposta dal Gran Giurì. Soprattutto dopo il 1990, ogni volta che i vescovi ricevettero accuse fondate – specie di abusi consumati molti anni prima – rimossero con decisione gli abusatori dal ministero, offrirono aiuto alle vittime e informarono le autorità giudiziarie. Il rapporto del Gran Giurì avrebbe dovuto operare le giuste distinzioni invece di fare di tutta l’erba un fascio.
I media invece hanno accolto il rapporto come una sentenza di condanna della Chiesa...
I procedimenti dei Gran Giurì sono coperti da segreto. La loro normale funzione è di determinare se ci sono motivi sufficienti per arrivare a processo, dove gli accusati potranno difendersi, verificare testimoni, o portare prove a loro discolpa. In ogni caso, un’inchiesta come quella della Pennsylvania non approderà in un processo. Che gli indagati ottengano un’udienza imparziale è totalmente nelle mani del procuratore generale che verifica l’indagine. Ma per la gran parte dei media e dell’opinione pubblica rapporti come quello della Pennsylvania assumono l’aura di un verdetto della corte dopo un processo equo e aperto. E questo è un malinteso particolarmente grave.
Ma la Chiesa americana non ha criticato il rapporto. Perché?
I vescovi sono in una posizione difficile. Qualunque cosa possano dire a difesa della Chiesa cattolica suonerebbe sospetta a causa dei fallimenti riconosciuti dei loro predecessori. Inoltre non vogliono aumentare il dolore delle vittime quanto piuttosto cercare di guarirle.
Lei ha anche parlato di una sorta di copione ormai già scritto da parte dei media su tutti i casi di abuso. A cosa si riferisce?
Negli Stati Uniti la maggior parte di quel che sappiamo sull’abuso sessuale da parte del clero esce da due fonti: i media, che hanno giocato un ruolo eccezionale nell’esporre questi crimini, e i processi, nei quali le vittime hanno cercato risarcimenti dalla sola fonte capace di fornirli, le diocesi e i loro vescovi. Sia gli avvocati delle vittime che i giornalisti hanno comprensibili ragioni per inquadrare questa storia come un drammatico conflitto tra vittime e vescovi che consapevolmente li hanno messi in pericolo. Nel tempo tutto ciò che poteva complicare questo semplice copione è stato accantonato.
La Chiesa come può uscire dall’angolo dov’è stata messa su questo tema?
Più trasparenza dei vescovi, mentre tocca ai laici mantenere le pubbliche autorità sul più alto standard di accuratezza ed equità nelle indagini.