mercoledì 15 ottobre 2014
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Non si può leggere l’«Humanae Vitae» di Paolo VI senza la «Populorum Progressio», perché l’insegnamento di Montini sulla vita e l’etica personale ha come sfondo il suo pensiero sullo sviluppo sociale. Ne è convinto il cardinale Elio Sgreccia, uno dei maggiori bioeticisti, che rilegge il documento sulla vita umana alla luce della prossima beatificazione del suo autore. Eminenza, che significato ha questo legame tra i due documenti? Quando venne pubblicata l’Humanae Vitae non venne ben compreso che l’etica personale sconfina sempre in quella sociale. L’Humanae Vitae, infatti, ha piena attinenza con i temi della Populorum Progressio: la demografia, la natalità, la possibile strumentalizzazione della famiglia e della procreazione umana per fini politici ed economici attraverso le biotecnologie che proprio in quegli anni si stavano sviluppando. Insomma non si possono separare i due campi: aborto, contraccezione, sterilizzazione, etica sessuale da una parte, sviluppo sociale dall’altra. Essi condividono il comune riferimento alla vita umana che è il primo «capitale sociale ed economico». Quali i punti più importanti dell’Humanae Vitae per voi studiosi di bioetica? L’intero documento è un pilastro profetico dal valore sempre attuale. In quei paragrafi Paolo VI andava alle sorgenti della vita umana e metteva in luce l’indissolubilità del rapporto tra la dimensione unitiva – l’amore che unisce – e la dimensione procreativa nel rapporto coniugale. Una «saldatura» che è un fatto umanamente di grandissima portata, perché impedisce la divisione all’interno dell’amore umano e della famiglia, che precede e condiziona anche altre realtà come quella dell’aborto o della pianificazione familiare. In quel momento Montini ebbe la lucidità di intravedere come ci fosse in atto un tentativo della politica di dominare i popoli attraverso la procreazione umana: proprio in quegli anni, infatti, anche la scienza si stava mettendo in moto per entrare nei meccanismi delle procreazione umana. E solo oggi ci appaiono chiare le conseguenze che allora forse non erano ancora ben comprese. Dobbiamo essere grati, quindi, a Paolo VI per averci messi in guardia da tutte le strumentalizzazioni della sfera procreativa e i delitti contro la vita. Per questo il suo magistero ha un valore attualissimo ed è in piena fase di rivalutazione anche in campo laico. La beatificazione è una conferma della validità del suo insegnamento. Come visse Montini la recezione di quel documento, che non mancò di suscitare reazioni forti anche nella Chiesa? L’«Humanae Vitae» non venne pienamente compresa e si ebbero manifestazioni di dissenso. Ma oggi tale presa di posizione negativa è ampiamente smentita dalle conseguenze che le interferenze con i delicati meccanismi della vita hanno avuto. E Montini si dichiarò sempre molto sereno e non si pentì mai di quello che aveva scritto. D’altra parte lui usò fino alla fine tutte le sue energie nel servizio al Vangelo e alla Chiesa: ebbi proprio questa impressione quando mi ritrovai davanti alla sua salma. Quando avvenne? Proprio il 6 agosto 1978, il giorno in cui morì. Venni chiamato a Castel Gandolfo – allora ero assistente ecclesiastico alla Facoltà di medicina – da monsignor Dino Monduzzi, il quale mi chiese di portare due medici che potessero stendere il certificato di morte. Quando arrivai Montini era già stata sistemato su un catafalco appena allestito e Monduzzi mi diede una stola e una cotta e mi chiese di dare la prima benedizione alla salma. Recitai per il Papa morto il primo «De profundis» e lo aspersi con l’acqua santa, poi gli baciai le mani, che mi colpirono per il fatto di essere scarnificate. In quel momento mi venne in mente il discorso che egli tenne alla morte dell’amico Aldo Moro e alle energie che doveva aver speso fino alla fine nel suo ministero.
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