Don Luigi Ciotti - Ansa
«Questa legge è stata la realizzazione di un sogno». Così don Luigi Ciotti, presidente di Libera, ripercorre questi 25 anni, parlando di «un bilancio positivo, anche se è giusto parlare delle criticità».
Don Luigi, perché positivo?
Non possiamo ignorare le difficoltà o le delusioni, ma consapevoli che, in assenza della legge 109, tanti bellissimi percorsi che abbiamo realizzato non sarebbero stati possibili. I beni confiscati sono diventati una palestra di vita e di democrazia. Hanno contribuito a bonificare tanti territori dalla presenza pervasiva delle mafie; a costruire reti di collaborazioni fra istituzioni, terzo settore, scuole e semplici cittadini; a trasformare l’economia, ma anche e soprattutto il punto di vista delle persone sul tema mafie. Hanno spiegato, coi fatti, che cambiare certe logiche di sopraffazione e violenza è possibile.
E quali sono le criticità?
Ci sono difficoltà oggettive da superare. La dimensione delle confische è sempre più significativa, e riguarda oltre agli immobili tante società, realtà produttive che in molti casi potrebbero essere salvate, trasformate in attività legali. Servono competenze nuove e trasversali, serve concertazione fra i vari soggetti coinvolti, superare certe difficoltà di raccordo fra le varie fasi. Servono trasparenza e accessibilità delle informazioni. E maggiori risorse finanziarie. Serve attenzione alla sostenibilità dei progetti di riutilizzo. Dobbiamo insomma fare uno scatto in più.
In che modo?
C’è bisogno di rigenerazione, non basta parlare di cambiamento. I cambiamenti sono stati il più delle volte degli adattamenti o peggio delle mutazioni esteriori. Se non ci rigeneriamo degeneriamo, come persone ma anche gli strumenti che mettiamo in gioco. Ci vuole un impegno da parte di tutti e non accontentarci di quello che è stato fatto.
Che ricordo ha di quei giorni di 25 anni fa?
Mi ricordo prima di tutto l’enorme soddisfazione di vedere tanta passione intorno a un tema che poteva sembrare 'da addetti ai lavori'. Invece tante persone colsero le potenzialità di quella legge e aderirono alla nostra petizione. Ma si stava per chiudere la legislatura e l’unica possibilità era di approvarla in commissione. Andai da tutti i capigruppo del Senato a chiedere di non buttare via il lavoro fatto e il milione di firme raccolte. Ci furono resistenze solo da parte di uno, ma l’indomani in extremis ci fu il voto unanime.
Perché questa norma è stata un passo importante?
Perché ha dato corpo a un’intuizione e a un sogno. L’intuizione di Pio La Torre, già negli anni ’70, sull’importanza di colpire i mafiosi nel loro potere economico. Il sogno di dimostrare che la confisca di quei beni poteva essere non soltanto giusta, ma utile. Gli innumerevoli percorsi di riutilizzo resi possibili dalla 109 hanno ottenuto questo risultato: oggi sappiamo che accanto al valore etico, dunque del vantaggio morale della restituzione al pubblico di un bene acquisito in forme illegali, c’è un vantaggio economico. C’è un circuito virtuoso che si crea, fatto di immobili messi a disposizione di chi ne ha più bisogno, di lavoro pulito, di prodotti sani messi sul mercato al posto di quelli inquinati, non solo a livello metaforico, dalle logiche criminali.
C’è qualche esperienza alla quale è particolarmente legato?
Tutte sono importanti, perché tutte hanno contribuito a tracciare questa strada: sono pietre miliari che segnano l’approssimarci a quel sogno iniziale. Oggi vorrei che ciascuna delle esperienze già in atto, così come ciascuna delle esperienze che nasceranno, diventasse anche un presidio culturale, un luogo dove di progetta il cambiamento. Bisogna aggredire non solo le manifestazioni criminali ma anche le sue radici, gli spazi e le condizioni che ne favoriscono l’azione. Ecco perché l’impegno nel territorio resta ancora decisivo e insostituibile.
La Chiesa è sempre più protagonista nella valorizzazione dei beni confiscati.
Voglio ricordare il vescovo di Locri don Franco Oliva e don Nunzio Galantino. Hanno aperto coraggiosamente una strada. Come Chiesa abbiamo il dovere di liberare le persone. E liberare i beni in quei territori vuol dire liberare le persone, renderle capaci di dignità e di amore. Ma dobbiamo parlare coi segni, le testimonianze incarnate, vere.