L’armonizzazione del diritto internazionale sulla filiazione e il certificato europeo di filiazione: sono i due contenuti della proposta di regolamento Ue bocciata ieri dalla Commissione politiche europee del Senato.
La prima area contiene le norme che delimitano la giurisdizione dei giudici degli Stati membri sulle questioni inerenti la filiazione, le regole che per ogni caso concreto indicano qual è la legislazione da applicare, e infine le norme che rendono più facili le decisioni giudiziarie in tema di bimbi.
Ma il vero problema di quel testo è rappresentato dal certificato europeo di filiazione. L’obiettivo dichiarato nel testo è far sì che «il riconoscimento della filiazione accertata in uno Stato membro sia rapido, agevole ed efficace», ma anche di permettere ai genitori «di dimostrare con facilità lo status proprio o dei figli rispettivamente, in un altro Stato membro».
Anche queste affermazioni potrebbero sembrare unanimemente condivisibili. Ma vagliate con la lente del diritto pongono interrogativi di non poco conto. La prima problematica riguarda la natura di questa “patente”, che – nella sostanza – avrebbe la funzione di accertare lo stato di filiazione.
Ne deriva che il documento non sarebbe una norma di diritto internazionale, la quale, per sua natura, deve limitarsi a indicare in quale ordinamento giuridico deve trovarsi la legge applicabile a ogni caso concreto, ma sarebbe una vera e propria norma di diritto sostanziale, che istituisce in tutti gli Stati membri il medesimo riconoscimento genitoriale.
Per capirci: l’altro ieri, il prefetto di Milano Renato Saccone con una circolare ha invitato i sindaci dell’area metropolitana di Milano a non riconoscere come genitori entrambi i membri di una coppia omosessuale, ma – dei due – solo quello che può vantare un legame biologico con il piccolo. La motivazione, ha spiegato l’ufficio territoriale del governo, sta nella legge 40 del 2004, che per l’accesso alla procreazione medicalmente assistita impone la diversità di sesso tra i membri dell’unione.
Punti fermi sono anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione che, secondo un filone giurisprudenziale ormai costante, hanno ritenuto che dal divieto italiano di maternità surrogata, imposto dalla medesima legge 40, derivi la non riconoscibilità giuridica del cosiddetto “genitore d’intenzione”, cioè di quello che nell’ambito della fecondazione medicalmente assistita non fornisce il suo corredo genetico.
Se vigesse il certificato europeo di filiazione, l’Italia sarebbe obbligata a riconoscere tale forma di genitorialità, sebbene le sue leggi e i suoi giudici abbiano chiaramente affermato l’illiceità di questo rapporto. È il testo stesso della proposta di regolamento europeo a lasciarlo trapelare: «Nessuna autorità o persona davanti alla quale sia stato presentato un certificato europeo di filiazione rilasciato in un altro Stato membro – si legge – dovrebbe poter chiedere la presentazione di una decisione giudiziaria o un atto pubblico al posto del certificato».
È evidente che l’intenzione sarebbe quella di scardinare il diritto dei singoli Paesi, e proprio in una materia come questa legata al diverso vissuto di ogni Paese.
Contraria a questo modo di legiferare è anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che in tema di filiazione ha più volte sancito un «margine d’apprezzamento dei singoli Stati» non suscettibile di trovare coercizioni. Con un unico limite: quello di riconoscere il legame di fatto creatosi tra coloro che vorrebbero essere chiamati genitori e il bimbo ottenuto con la procreazione medicalmente assistita.
Tale obbligo, per la verità, è stato sancito anche dalla nostra Corte Costituzionale, che nel 2021 – con due sentenze gemelle – ha invitato il legislatore a mettersi dalla parte dei piccoli e a non lasciare vuoti che possano minare il perseguimento del miglior interesse dei minori. Attenzione: questo invito, incontestabile perché posto a tutela dei bimbi, è ben diverso dall’obbligo di riconoscere come genitore chi tale non è per la legge nazionale.
Ed è per questo che il “certificato europeo di filiazione”, a prima vista ispirato dalle migliori intenzioni, rischia di diventare un grimaldello per scardinare il diritto nazionale. E consentire la nascita di bimbi senza una mamma e un papà. Con “due mamme” o “due papà”. Non certo il loro “miglior interesse”.