lunedì 22 luglio 2024
Il senatore leghista Manfredi Potente firma e poi ritira un ddl per vietare negli atti pubblici la declinazione femminile di ruoli e mestieri. La linguista Della Valle: «Proposta antistorica»
La porta della neosindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi

La porta della neosindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi - Fotogramma

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Sindaca, assessora, deputata. E poi avvocata, ministra o magistrata: ci eravamo appena abituati alla declinazione femminile di ruoli e mestieri, quand’ecco che il senatore leghista Manfredi Potente firma una proposta di legge per vietare negli atti pubblici l’adeguamento linguistico delle parole in base al genere di chi ricopre questa o quella mansione. Vestiti i panni di un passatista maestro di grammatica intento a difendere l’«integrità» dell’idioma patrio ma dimentico che la lingua è organismo vivo e mutante con la società, Potente propone di sanzionare con una multa da mille a cinquemila euro chi si addentrerà – così recita il ddl – in «neologismi» e «sperimentazioni linguistiche».

«C’è chi fa passi avanti verso la parità e chi ci riporta direttamente al Medioevo» ha dichiarato la senatrice M5S Sabrina Licheri segnalando a livello culturale un passo indietro che poi è stato messo in pratica proprio dal collega Potente il quale ieri, dopo giorni di polemica, ha ingranato la retromarcia e ritirato il ddl. Secondo la Lega, intervenuta con una nota, si è trattato infatti di «un’iniziativa personale non condivisa dai vertici del partito e che non rispecchia la nostra linea». Anche perché – ha commentato ironicamente Loredana Capone, presidente del Consiglio regionale pugliese in quota Pd – «chi ha sbandierato rosari ed altri elementi della cristianità non si accorge che “avvocata nostra” è la Madonna e che, se qualcuno recitasse oggi il Salve regina, nel caso di approvazione della legge, si beccherebbe una multa».

Ritirato il ddl, rientrata la polemica? Macché. Per tutta la giornata la politica si è spesa in un amatoriale dibattito linguistico. Intendiamoci, che la politica s’interessi dell’idioma parlato nel Paese non è certo una novità. Ne è recente esempio la scelta del rettore dell’Università di Trento che qualche mese fa ha riscritto il regolamento dell’ateneo tutto al femminile, per «smascherare il maschilismo di cui la nostra società è intrisa» e per una volta costringere gli uomini, e non le donne, a leggere in termini di genere opposto ciò che li riguarda. Se ne scrisse a fiumi, anche se in maniera opposta alla vicenda odierna, in barba a chi dice che l’italiano non importa più a nessuno.

«Se la vediamo così la polemica è buon segno – commenta Valeria Della Valle, linguista e condirettrice del dizionario Treccani – ma la vicenda in sé non lo è affatto. Anzitutto parlare di “neologismi” è un errore: queste parole sono in uso già da molto tempo e sono ormai accreditate nei dizionari della lingua italiana. A dirla tutta, “avvocata” è un termine che esiste dal Medioevo e “ministra” dal 1300. La proposta perciò è assolutamente antistorica e riporta all’unico periodo della nostra storia in cui ci fu una politica linguistica, ovvero il regime fascista. Solo a quell’epoca certe parole, come quelle di origine straniera, oppure certi pronomi andavano sostituiti negli atti pubblici».

Il modo in cui parliamo, insomma, influenza l’immaginario e racconta il modo in cui pensiamo e perciò agire sulla lingua non è un vezzo ma un’iniziativa di sostanza. «Si crede – spiega Della Valle – di poter eliminare l’avanzamento delle donne nella società cancellando le parole che designano questa realtà. Per fortuna non si può fermare la storia, tantomeno a colpi di proposte ridicole e velleitarie, lanciate solo per far parlare di sé».

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