mercoledì 17 settembre 2014
​​Renzi sferza le Camere: al termine dei mille giorni il diritto del lavoro dovrà essere un altro.
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​La minaccia è quella di usare "l’arma finale" del decreto. Se il Parlamento dovesse dilazionare i tempi, il governo è pronto a utilizzare lo strumento del decreto legge per riformare il mercato del lavoro. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi lo dice esplicitamente nel discorso alla Camera: «Al termine dei 1.000 giorni il diritto del lavoro non potrà essere quello di oggi: non c’è cosa più iniqua di un diritto del lavoro che divide i cittadini tra lavoratori di serie A e di serie B», ha detto Renzi. Perciò, se il Parlamento non rispetterà i tempi indicati, il governo è pronto «a intervenire anche con misure di urgenza» perché sul tema del lavoro «non possiamo perdere un secondo di più».Una pressione che dovrebbe imprimere l’accelerazione decisiva alla discussione in Commissione lavoro sul Jobs Act. Oggi governo e maggioranza dovrebbero formalizzare un emendamento all’articolo 4 della legge delega, con un esplicito riferimento non all’abolizione dell’articolo 18 (che non passerebbe mai) ma a un più generico (eppure egualmente decisivo) nuovo Codice semplificato per riscrivere tutta o quasi la legislazione vigente. Sarebbero i decreti delegati del governo, però, a stabilire esattamente i contorni e la portata della riforma, anche riguardo ai licenziamenti. Su questo Renzi è stato sibillino, o meglio in parte contraddittorio. Da un lato, infatti, ha detto di non volere una riforma "alla spagnola" (dove c’è solo un’indennità monetaria per i licenziamenti) ma "alla tedesca" (dove il giudice può decidere pure il reintegro). Dall’altro, ha però sottolineato che già ora «il reintegro dipende dalla conformazione geografica e non dalla fattispecie giuridica», perché dopo la riforma Fornero molto dipende dalla sensibilità del giudice che può decidere o meno il reintegro e le decisioni in Italia sono a macchia di leopardo.Così se il presidente dei senatori Ncd (e relatore del Jobs Act) Maurizio Sacconi apprezza il riferimento a un eventuale decreto per accelerare l’iter della riforma – ribadendo la necessità di innovare tutto lo Statuto – la stessa ipotesi manda in allarme la sinistra del Pd con Stefano Fassina («così si mandano tutti i lavoratori in serie C») e con Cesare Damiano che ribadisce la «contrarietà ad avere una riscrittura complessiva dello Statuto e la cancellazione dell’articolo 18». Anche il sindacato è già sul piede di guerra, in particolare la Cgil e la Fiom che, con Maurizio Landini, parla di «strappo inaccettabile».Ma che il governo tenti di portare a termine una svolta decisiva sul lavoro lo confermano in serata prima il ministro dell’Economia a "Porta a Porta": «Vogliamo semplificare le norme, oggi le forme contrattuali sono più di 40, noi vogliamo avere uno solo o al massimo due contratti, retribuzioni legate ai livelli aziendali e la revisione degli ammortizzatori. Con una riforma così l’articolo 18 diventa un non problema». E poi il premier Renzi che parla chiaro anche alla direzione del suo partito: «La riforma del lavoro non si sintetizza nella discussione sull’art. 18 sì o no, che va fatta una volta per tutte, ma dovrà avere un primo pacchetto sul sistema ammortizzatori. E per farlo servono soldi».
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