venerdì 17 febbraio 2012
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​«Oggi abbiamo la certezza che quella era una indagine che andava svolta. Purtroppo, però, non si è fatto assolutamente nulla per combattere la corruzione nel nostro Paese. Siamo tornati indietro: ieri si chiedeva denaro per il partito, oggi per sé stessi». Gerardo D’Ambrosio per 45 anni è stato magistrato. Giudice istruttore a Milano negli anni del terrorismo, poi procuratore aggiunto durante Tangentopoli, infine procuratore capo. Dal 2006, dopo essere andato in pensione, è senatore del Pd.Quale fu la scoperta più eclatante di quella stagione?Emerse un sistema generalizzato che aveva contribuito ad una spesa pubblica fuori controllo. Si arrivava, per esempio, a bandire appalti inutili pur di ottenere denaro per i partiti. Tutto ciò coinvolgeva sia la politica che l’economia. Gli imprenditori sapevano che non c’era altra possibilità di ottenere lavori se non quella di trovarsi dei “padrini” politici, con ripercussioni deleterie sul funzionamento della pubblica amministrazione. Le ricadute erano pesanti anche sul libero mercato, viziato da un sistema corruttivo che impediva una sana concorrenza, peraltro contribuendo alla crescita sproporzionata del debito pubblico. Tutti guasti di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.Che genere di risposta politica vi aspettavate?Speravamo in una reazione positiva, trovando il modo per perseguire e prevenire ogni forma di corruzione. In un primo momento ci fu il tentativo del governo Amato di rivedere le leggi sugli appalti, ma le decisioni furono deboli e in seguito non se ne sono registrate di più efficaci. Insomma, ci aspettavamo una stagione di riforme, la nascita di una nuova classe politica, invece si scelse di attaccare chi indagava. Eppure la "questione morale" era stata sollevata da esponenti politici autorevoli, come Spadolini e Berlinguer.Con quali risultati?La politica rivolse l’attenzione contro la magistratura inquirente. Dal ’94 in poi, con la "discesa in campo" di Berlusconi, questo attacco è diventato sistematico. Basta vedere cosa ne è stato del falso in bilancio e di tutta una serie di norme che non scoraggiano la corruzione né la creazione di fondi neri.A molti parve che il "tintinnare delle manette" dimostrasse un eccesso negli strumenti di indagine. Non ha niente da rimproverarsi?Ricordo quando la Guardia di finanza si presentò in Parlamento per ottenere copia dei bilanci del Psi. Fu un errore di cui chiedemmo scusa. I bilanci del resto erano pubblici e non c’era motivo di mandare lì le Fiamme gialle. Vorrei però ricordare che gli imputati erano centinaia e centinaia. Fummo accusati di abusare della carcerazione preventiva, ma non bisogna neanche dimenticare che mentre le inchieste avanzavano, registravamo la coda di imprenditori negli uffici dei pm. Arrivavano per rendere una confessione piena. Fu il segnale che il sistema era saltato.Mai la carcerazione preventiva è stata usata come strumento di pressione sugli indagati?Ogni nostra azione era compiuta secondo la legge. C’era già la norma che ci obbligava a chiedere la detenzione cautelare al giudice delle indagini preliminari. Tanti hanno dimenticato che nei casi in cui il gip respingeva le nostre richieste e noi presentavamo ricorso, sempre abbiamo ottenuto ragione.La magistratura cosa ha imparato da quell’esperienza?Quel periodo ha reso necessaria quella cultura della specializzazione che è andata via via affermandosi. Competenze che si cerca di coltivare creando sezioni speciali proprio per avere giudici esperti. La corruzione cambia volto e bisogna essere in grado di perseguirla in ogni sua forma.Qual è il lascito di "Mani Pulite"?Purtroppo non si è fatto nulla per prevenire e contrastare la corruzione. Anche per questa ragione abbiamo presentato un disegno di legge per dare attuazione alla convenzione europea di Strasburgo del 1999, che unifica e punisce più gravemente le ipotesi ora previste e introduce i nuovi reati di «traffico di influenze illecite», di «corruzione privata» e forme più efficaci di prevenzione e contrasto alla corruzione.
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