mercoledì 18 luglio 2012
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Conviene ancora iscriversi all’università? Impegnare almeno 3 o 5 anni di studi superiori, per poi cercare lavoro in un mercato che sembra non assorbire più risorse? E l’investimento in istruzione paga ancora in termini occupazionali e di retribuzione? Domande ricorrenti in questi giorni fra i ragazzi che hanno concluso le prove della maturità e i genitori che devono decidere se mettere a budget alcune migliaia di euro di investimento nell’istruzione dei figli.Se si guarda alla situazione generale – con un tasso di disoccupazione generale oltre il 10% e quello dei giovani che ha superato il 36% – verrebbe da alzare le braccia e arrendersi. Meglio non investire tempo, denaro e fatica iscrivendosi all’università, quando gli unici posti di lavoro a segnare una tendenza positiva sono quelli a carattere prevalentemente manuali. Eppure «in Italia i laureati sono ancora pochi – spiega Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea –. I 19enni che si iscrivono all’Università rappresentano solo il 29% dei coetanei. E negli ultimi otto anni le immatricolazioni si sono ridotte del 15% per l’effetto combinato del calo demografico, della diminuzione degli immatricolati in età più adulta e del deterioramento della condizione occupazionale dei laureati». L’ultimo rapporto del consorzio Almalaurea testimonia infatti che il tasso di occupazione a un anno è calato di 9 punti per i laureati triennali tra il 2007 e il 2010, di 6 punti per quelli specialistici e ancora di 9 punti per quelli a ciclo unico. Vanno meglio i risultati a tre e cinque anni dalla laurea, con una media rispettivamente del 74 e 78 per cento di occupati e un intervallo di variazione che spazia dal minimo del 46% per i laureati del gruppo geo-biologico, fino al 98% delle professioni sanitarie. Ancora, un quarto dei laureati viene occupato con mansioni di più basso profilo rispetto al suo titolo di studio (in particolare quelli umanistici).Se però si esaminano più in profondità i dati 2007-2010 sull’occupazione, si può vedere come il saldo di meno 350mila posti sia il risultato della contrazione di 850mila occupati in possesso della sola licenzia media o di un diploma triennale e il contemporaneo incremento di 500mila occupati diplomati o laureati. Studiare insomma ha pagato e paga anche in tempo di crisi. La conferma viene pure dai dati sulle persone che cercano un posto. «La penalizzazione nelle quote di disoccupazione ha colpito maggiormente le persone con titoli di studio più bassi – spiega infatti l’Isfol nel suo ultimo rapporto su "Le competenze per l’occupazione e la crescita" –. Nel 2011 il tasso di disoccupazione degli individui poco scolarizzati si attesta infatti su livelli doppi rispetto a quelli registrati per coloro che possiedono un titolo universitario: l’indicatore riferito ai laureati è pari al 5,4%, mentre per i diplomati è superiore di 2,5 punti percentuali e raggiunge un valore del 10,4% per chi possiede la licenza media». La laurea, insomma, funziona ancora come assicurazione contro la disoccupazione, in particolare di lunga durata. E studiare ripaga anche in termini di riduzione del gap di genere, con la distanza tra i tassi di disoccupazione specifici di uomini e donne che si riduce sensibilmente all’aumentare del titolo di studio. Se infatti il tasso di occupazione femminile è in media il 46,5%, quello delle donne con basso livello di istruzione è pari ad appena il 33%, mentre raggiunge il 72% nel caso delle donne laureate. «Un titolo di studio elevato – nota ancora l’Isfol – garantisce un vantaggio in termini di occupabilità nei territori che hanno bassi livelli di occupazione, come le Regioni del Mezzogiorno», a conferma che studiare conviene anche e soprattutto ai ragazzi del Sud.Vantaggi in termini di occupabilità, dunque. Ma il ritorno economico? È conveniente investire in istruzione? La risposta è ancora sì, anche se meno, sensibilmente meno, che in altri Paesi. Fra gli Stati aderenti all’Ocse, nota sempre l’Isfol, «le retribuzioni dei lavoratori con istruzione terziaria superano mediamente del 50% quelle dei lavoratori con istruzione secondaria. La media europea è pari al 48,3%. Il dato italiano si ferma al 36,2%» (vedi tabella 2). Non sarà tanto, nel confronto internazionale c’è da arrossire, ma nel generale appiattimento dei salari italiani, quel 36% è già qualcosa.
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