Silvia Romano abbraccia la mamma dopo il suo arrivo domenica all’aeroporto di Ciampino - Ansa
C’è una prima ondata di sofferenza, con torture fisiche e psicologiche durante il sequestro. Ma, a volte, c’è pure una seconda ondata di malvagità, subdola e inattesa, che si accanisce su chi è ancora fragile: è la marea di insulti scagliati attraverso messaggi sui social o interventi sui giornali, che può straziare quella persona una seconda volta, addossandole colpe che non ha, attaccandola per il suo credo o le convinzioni o arrivando perfino a minacciarla. Un meccanismo perverso di cui è bersaglio in questi giorni Silvia Romano, la volontaria italiana tornata a casa dopo un sequestro di 18 mesi, nelle mani dei jihadisti somali di al–Shabaab. Da quando è arrivata a Ciampino con una veste verde che testimoniava la conversione alla fede islamica durante la prigionia, sulla giovane è piovuta ogni sorta di contumelie, sia attraverso i titoli di alcuni quotidiani sia attraverso i social network, compreso l’agghiacciante incitamento di un consigliere comunale di Asolo ( Treviso), tale Nico Basso, che ha postato una foto di Silvia con la scritta «Impiccatela».
L’inchiesta di Milano. Da ieri c’è un fascicolo in procura a Milano, aperto contro ignoti, per le minacce e gli insulti scagliati attraverso le reti social. Al vaglio dei pm, si è appreso, ci sarebbe anche un post dell’ex parlamentare Vittorio Sgarbi, in cui si sostiene che la giovane «va arrestata » per «concorso esterno in associazione terroristica». Un messaggio menzionato ieri dalla stessa 24enne, durante l’audizione come persona offesa davanti al pm di Milano Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo, e al Ros dei carabinieri. Insomma, il sommesso «chiedo rispetto» di Silvia non è bastato. Le volanti vigilano discrete nel quartiere dove risiede. E il suo profilo Facebook non è piùopen, ma protetto da un livello maggiore di privacy.
«Victim blaming». Non è la prima volta. La tempesta di attacchi a Silvia ha diversi precedenti. Chi non ricorda le polemiche feroci su quel (forse incauto) «siamo pronte a tornare lì» delle “due Simone” Torretta e Pari, sequestrate nel 2004 a Baghdad negli uffici della Ong “Un Ponte per...” e liberate dopo un mese? O gli attacchi a Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti rapite in Siria e liberate nel 2015, bollate da certa stampa come «incoscienti da salvare», per non dire dei social, dove il commento più gentile fu: «Quelli che se la cercano, se la debbono sbrogliare da soli». Un fenomeno – ragiona con Avvenire lo studioso Luca Guglielminetti, esperto di radicalismi, “vittimologo” e lettore all’Università di Bergamo – definito victim blaming, ossia colpevolizzazione della vittima: «Prima la violenza fisica dei rapitori, poi quella verbale dell’opinione pubblica, in cui il leit motiv dell’invettiva è proprio quel “se l’è cercata”. Come occorso per Greta e Vanessa, anche in questi giorni c’è una tormenta di “odio civile” in cui si sommano idiosincrasie politiche, religiose o sessuali».
Nel 1986 il professor Angelo Ventura, storico del terrorismo, lucidamente scriveva che «le vittime sono ingombranti », ricordando come gli studiosi della violenza politica conoscano bene la tendenza dell’opinione pubblica a criminalizzare la vittima, per rassicurarsi ed esorcizzare il pericolo, «convincendosi che in fondo qualche cosa deve aver fatto per meritarsi la violenza». Un meccanismo sperimentato dallo squadrismo fascista e applicato dal terrorismo rosso e nero. Ancora oggi, osserva Guglielminetti, «col terrorismo jihadista scatta un meccanismo per cui pensiamo che “la vittima se l’è cercata”». C’è poi la vexata quaestio del pagamento di un riscatto (coperto da segreto di Stato e dunque non accertabile), altro “capo d’accusa” sbandierato sui social: «La nostra storia insegna come, dopo la tragica conclusione del sequestro di Aldo Moro, si sia fatto il possibile per riportare a casa un ostaggio, impegnando risorse e sacrificando vite di funzionari eccellenti come Nicola Calipari, durante la liberazione di Giuliana Sgrena. È criticabile questo?».
A ciò si somma il tiro incrociato delle contrapposizioni ideologiche o politiche. Invece purtroppo, conclude lo studioso, nessuno si occupa del recupero del benessere psico–sociale delle vittime: «In molti paesi esistono associazioni con protocolli scientifici di sostegno ai rapiti e alle loro famiglie durante e dopo il rapimento. In Italia nulla, se non iniziative episodiche dettate dalla buona volontà di singoli, di cui non conosciamo gli esiti».
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