E' piuttosto dubbio che, dopo le posizioni rigide (motivate più da esigenze di tattica politica che di merito costituzionale) assunte dai sostenitori dell’elezione diretta, dell’elezione indiretta o della composizione ex officio del Senato, sia ancora utile proporre qualche ragionamento sulla sostanza dei problemi. Tuttavia, vale la pena provarci, anche in quanto un osservatore esterno è legittimato solo a questo tipo di osservazioni. Ma per comprendere la questione relativa a composizione, funzioni e funzionamento del Senato, occorre uscire dalla questione stessa e collocarla in un’ottica relativa al sistema costituzionale complessivo. In effetti, nel costituzionalismo contemporaneo, la questione della seconda Camera è una variabile dipendente della forma di Stato e della forma di governo.
Riguardo alla forma di governo, l’Italia ha oggi – assieme alla Romania – l’unico regime parlamentare al mondo in cui il governo deve godere della fiducia di entrambe le Camere e nel quale un progetto di legge ha sempre e comunque bisogno del voto delle due assemblee parlamentari per diventare legge. Un sistema di questo tipo è compatibile con il principio democratico – se inteso in senso forte, vale a dire come esigenza che agli elettori sia consentito, anche grazie al sistema elettorale, di scegliere una maggioranza, un programma e un premier – solo se le due Camere hanno una composizione identica. Il che, però, oltre a renderle un doppione l’una dell’altra, è assai problematico in un sistema di partiti deboli e con regole elettorali almeno in parte maggioritarie, che rischiano costitutivamente di produrre maggioranze diverse nelle due assemblee. Dunque, mettere il sistema di governo italiano a norma con gli altri regimi parlamentari europei significa limitare la fiducia al solo rapporto fra Governo e Camera politica e riconoscere a quest’ultima una posizione prevalente nel procedimento legislativo rispetto alla seconda Camera.
Se i problemi della forma di governo sono alla base della pars destruens della riforma, essi non ci dicono tuttavia nulla circa il modo in cui costruire in positivo il nuovo Senato. In teoria, la pars destruens ora evocata è compatibile anche con un Senato eletto a suffragio universale come oggi, alla condizione che esso sia escluso dal voto di fiducia e reso subordinato nel procedimento legislativo. Tuttavia, di fronte a un Senato eletto direttamente si porrebbe la questione di spiegare perché una Camera eletta direttamente non dovrebbe avere poteri pari all’altra e, ove si volesse evitare di farne un doppione della prima Camera, di chiarire in che modo esso debba essere eletto. Se, invece, si pensa ad un Senato eletto indirettamente o composto da membri di altri organi, che ne facciano parte ex officio – come accade in molte democrazie parlamentari contemporanee (Germania, Francia, Austria, Belgio, per fare solo qualche esempio) – la questione può essere affrontata solo rispondendo a un’altra domanda: chi deve essere rappresentato in Senato? A quale principio strutturale deve rispondere la seconda Camera?
L’evoluzione del costituzionalismo italiano dagli anni Settanta del Novecento a oggi ha fornito sino a poco tempo fa una risposta: data la tendenza a un sistema regionale decentrato (con significativi poteri legislativi delle Regioni) e a un ruolo forte delle autonomie, la seconda Camera dovrebbe essere naturaliter una Camera delle Regioni (e delle autonomie locali, soprattutto dei Comuni). Il disegno di legge del governo Renzi sembra in effetti muoversi in questa direzione, ma lo fa con serie contraddizioni interne: proprio mentre completa il disegno autonomistico con una Camera delle autonomie (l’anello mancante del regionalismo italiano), esso riduce fortemente lo spazio delle autonomie stesse, in particolare l’autonomia legislativa delle Regioni, che nella versione attuale del progetto viene ridotta a poco più di un simulacro (oltretutto con l’ipocrisia di mantenere l’enumerazione delle competenze statali, che risponde a una logica in cui la regola sono le competenze regionali: ma con la particolarità che l’enumerazione delle competenze statali finisce con l’includere quasi tutto lo scibile umano). Del resto, ciò corrisponde all’umore centralistico oggi dominante nell’opinione pubblica (la stessa, sia consentito ricordarlo, che quindici anni fa invocava a gran voce il "federalismo all’italiana").
In sintesi: la riforma del Senato è un vicolo cieco se la si considera come tema autonomo, mentre si incanala su un alveo ragionevole se viene collocata nella prospettiva della forma di governo e della forma di Stato. La storia costituzionale degli ultimi venti anni indica con chiarezza la via della Camera delle autonomie. Ma costruire una Camera delle autonomie svuotando le autonomie (in particolare le Regioni) è un po’ come preparare una "pepata di cozze" senza cozze.