In premessa diciamo subito che nel commentare questa notizia faremo obiezione di coscienza e non useremo la parola «gioco» parlando dell’associazione degli industriali dell’«azzardo». Per due ragioni: la prima riguarda la necessità non solo formale di attribuire sempre i termini più adatti a ciò che effettivamente vogliono rappresentare; la seconda è legata al merito, alla sostanza della questione e alla necessità di togliere ogni riferimento ludico alla vicenda in presenza del superamento di un confine che dovrebbe essere considerato invalicabile. Quale limite? Quello che ieri ha spinto il vice presidente della Confindustria dell’azzardo, Massimiliano Pucci, a paragonare il regolamento del Comune di Genova per limitare la proliferazione in città delle macchinette mangiasoldi e delle sale che le ospitano – tenetevi forte – alle «leggi razziali imposte nel 1938 contro gli ebrei». Non è uno scherzo. Pucci ha parlato anche di atteggiamento «proibizionista» paragonando ancora l’esposizione di bollini con la scritta «no slot» nei bar senza macchinette, agli «adesivi attaccati nei negozi in Italia nel ’43» per etichettare le attività gestite da ebrei. Fermiamoci un secondo a tirare il fiato, prima di ripartire. Perché l’offesa a chi ha sofferto pene ben più tragiche, il paragone irrispettoso e folle a una tragedia umana di dimensioni sconfinatamente più vaste di un piccolo stop al dilagare della ludopatia, questa volta è peggio del solito salto azzardato cui siamo abituati in questi ambienti. È un’assurda scommessa persa. Per sempre.