sabato 20 novembre 2021
Le strategie dei big digitali per dominare il mondo dell'intrattenimento. Ma un mondo virtuale che le persone frequentano quotidianamente già esiste
Il loro di Metaverso

Il loro di Metaverso - Ansa

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A vedere il filmato della presentazione che ne ha fatto Mark Zuckerberg lo scorso ottobre è difficile pensare che il “metaverso” possa avere successo. L’inventore di Facebook ha mostrato avatar che festeggiano compleanni virtuali con torte fatte di pixel, ologrammi di anziani che giocano a scacchi in una finta New York, impiegati che indossano visori tridimensionali per lavorare con comodo sulle loro scrivanie virtuali. Se questa è la «nuova evoluzione della tecnologia sociale», dentro non c’è nulla di allettante. Soprattutto dopo un anno e mezzo di pandemia. In questi mesi tutti hanno sperimentato che cosa significhi rimanere distanti. Ognuno adesso sa che una videochiamata non è appagante come una conversazione faccia a faccia, e che per un bambino una lezione seguita sul tablet è così deprimente che tornare a scuola (anche con la mascherina in faccia) diventa un’esperienza elettrizzante. I finti sfondi dei colleghi su Microsoft Teams possono essere simpatici per mezza giornata. Il momento migliore degli aperitivi su Zoom è quello in cui si spegne la telecamera.

L’impressione è che Zuckerberg stia cercando in maniera un po’ goffa una strada per garantire un futuro alla centralità che Meta, il nuovo nome della società che controlla Facebook, si è conquistata nel business del digitale. È da tempo che il social network dominante è costretto a inseguire rivali più creativi e innovativi. Zuckerberg ha comprato Instagram e Whatsapp, pagandoli rispettivamente 1 e 19 miliardi di dollari, quando ha capito che potevano insidiare la sua egemonia. Ma non si è reso conto di quello che stava diventando TikTok. Ora che la quotazione di ByteDance, la società cinese che controlla il social network dei video “divertenti”, è salita fino a 425 miliardi di dollari, nemmeno Facebook può permettersi di comprarla. Per Zuckerberg è un grosso problema, perché ai ragazzini TikTok interessa molto più di Facebook, diventato un posto per adulti, che sono un pubblico meno prezioso degli adolescenti (capaci oggi di rimanere tali anche ben oltre i 20 anni di età).


Zuckerberg cerca solo di spostare l'attenzione
dagli scandali che stanno colpendo il colosso:
dopo le rivelazioni sulla scarsa considerazione
dei temi etici, ora è partita un'inchiesta su Instagram


Per questo l’uomo che ha pensato Facebook, oggi 37enne, deve inventarsi qualcosa di nuovo. Da tempo punta molto sullo sviluppo della realtà virtuale nella forma più immersiva oggi disponibile, quella dei visori tridimensionali che isolano l’utente per calarlo in mondi virtuali. Per il momento questa realtà virtuale ha trovato molto più posto nei romanzi di fantascienza (compreso quel Snow Crash del 1992, da cui il metaverso prende il nome) che nel mondo reale. Anche su questo piano Facebook sta comunque inseguendo i rivali. Il metaverso inteso come un mondo virtuale che le persone frequentano quotidianamente c’è già ed è quello costruito da società come Epic Games, Rockstar Games o Moja (oggi del gruppo Microsoft) che hanno sviluppato alcuni dei videogiochi più popolari del mondo: rispettivamente Fortnite, la serie Grand Theft Auto o Minecraft. Tutti giochi in cui assieme ad altri utenti collegati da ogni parte del mondo ci si immerge in un’altra realtà, anche estremamente realistica (e spesso violenta), per vivere esperienze e “fare cose” diverse dalla quotidianità reale. I "gamer" più attrezzati ci giocano con schermi curvi, cuffie potenti, sedute ergonomiche. Avessero un visore 3D capace di gestire l’enorme capacità di calcolo richiesta da questi videogame in versione virtual reality, si divertirebbero ancora di più. Il divertimento è oggi l’unica ragione capace di convincere milioni di persone a isolarsi dal mondo per vivere nella realtà virtuale.

Facebook non è più divertente da un pezzo. Gli utenti ci vanno per noia e abitudine, con scarsissima soddisfazione. Negli uffici di Palo Alto lo sanno molto bene. I Facebook Files svelati da Frances Haugen prima al Wall Street Journal e poi al consorzio giornalistico americano che li ha ribattezzati "Facebook Papers" hanno confermato quanto all’interno dell’azienda di Zuckerberg siano coscienti di questo problema. Sanno per esempio – perché lo hanno rivelato indagini interne – che Instagram è psicologicamente tossico per milioni di utenti più giovani, soprattutto per le ragazze adolescenti (un gruppo di procuratori generali degli Stati Uniti ha annunciato giovedì di avere avviato un’indagine per verificare se il social network abbia deliberatamente ignorato gli allarmi sui rischi per la salute mentale degli adolescenti). Sanno anche che il cambiamento dell’algoritmo introdotto nel 2018 per aumentare il coinvolgimento degli utenti li ha resi allo stesso tempo più cattivi e arrabbiati. Un’altra squadra di ricerca interna ha rilevato che un utente su otto ha ammesso di avere sviluppato un uso compulsivo del social media, una dipendenza che ha creato problemi sul lavoro, in famiglia, nelle relazioni. Un utente su otto, nel caso di Facebook, sono 360 milioni di persone. Dopo due anni quel team di ricerca è stato sciolto.


Da tempo il social network dominante
è costretto a inseguire rivali più creativi e innovativi,
come TikTok, che ai ragazzini interessa di più
ed è diventato un vero concorrente



I Facebook Papers sono stati solo l’ultimo scandalo. Prima c’era stato Cambridge Analytica. E prima ancora c’erano state le denunce argomentate e intriganti dei meccanismi che stanno dietro i social network proposte in libri di successo come quelli del guru della realtà virtuale Jerome Lanier o in documentari come "The Social Dilemma". Quello che rende problematico Facebook per la società è la stessa essenza del suo business, che sta nel catturare a tutti i costi l’attenzione dell’utente per venderla agli investitori pubblicitari. Se per riuscirci funzionano bene le notizie false, le influencer che si spogliano, i “troll” o i giochini stupidi poco importa: basta che funzioni. E funziona: malgrado tutto, Meta continua a fare tantissimi soldi, incassando dagli investitori pubblicitari circa 8,2 dollari per ogni utente che si connette almeno una volta al mese a una delle sue app. Nei primi nove mesi del 2021 ha fatturato 84,3 miliardi di dollari (il 45% in più rispetto a un anno fa) facendo 29 miliardi di utili. Investire 10 miliardi sullo sviluppo del “suo” metaverso, con conti del genere, non è nemmeno una grande spesa. La potenza economica di Meta è quella che permette a Zuckerberg di ignorare in modo spudorato gli allarmi sulla sua attività che si moltiplicano tra Stati Uniti ed Europa e proporre il suo social network come porta di accesso a una realtà parallela che vuole assorbire una larga parte della vita sociale delle persone.

La stessa storia di Facebook ricorda però che nel settore della tecnologia non sempre vince chi ha più risorse: giganti come Google o News Corp di Rupert Murdoch hanno sfidato la creatura di Zuckerberg e ne sono usciti sconfitti, nonostante le immense risorse a disposizione. Se davvero la realtà virtuale “per le masse” avrà un futuro, è probabile che a costruirlo non saranno gli innovatori di 15 anni fa, ma nuovi disruptor, persone e aziende capaci di immaginare il cambiamento. Speriamo sappiano portare innovazione buona anche sui modelli di business. Non è difficile pensarne uno con effetti collaterali sulla società meno dannosi di quelli di Facebook.

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