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Un doppio fronte, economico e politico. Europeo e italiano. «ReArm Eu», il piano presentato da Ursula Von der Leyen e su cui il Consiglio Ue ha dato un primo sì informale giovedì scorso, è ancora un cantiere aperto. Le scelte finali sono attese al nuovo vertice dei leader del 20-21 marzo, ma le tappe intermedie sono fondamentali: l’Eurogruppo e l’Ecofin di ieri devono risolvere le frizioni tra gli Stati membri sulle modalità di finanziamento; domani, nell’Europarlamento, si capirà la tenuta delle principali famiglie politiche e, all’interno di esse, di Fratelli d’Italia e Partito democratico; e la settimana prossima, alla Camera e al Senato, si proverà a capire se il sì italiano ha una base parlamentare robusta.
Trasversalmente, e collegato al piano di riarmo, i prossimi saranno giorni decisivi per capire che conformazione potrà avere la cosiddetta “coalizione dei volenterosi” a sostegno dell’Ucraina. Fermo restando che l’ombrello resta incerto e divisivo (Europa? Nato? Onu?), l’Italia ha comunque deciso di partecipare al processo. Oggi con la presenza a Parigi, al vertice militare, del Capo di Stato Maggiore, generale Luciano Portolano. Domani con la presenza del ministro della Difesa Guido Crosetto alla ministeriale a cinque con Francia, Germania, Polonia e Regno Unito. Al momento, l’obiettivo minimo dell’Italia è che la coalizione sia larga, non ridotta alle forze europee, e comunque predisposta al dialogo con gli Usa di Trump.
Una linea - quella sul riarmo e sull’Ucraina - che il governo porta avanti al netto dei distinguo del vicepremier leghista Matteo Salvini, che continua a cercare la polemica con Macron e che, di fronte alle sortite anti-Kiev di Musk che preoccupano anche Meloni e Tajani, propone un confronto tra il magnate e il capo dello Stato Sergio Mattarella. Una proposta che ha il sapore della provocazione. Dal Colle fanno notare che il rapporto con il “re dei satelliti” è materia di governo e che al momento non risultato decisioni in corso da parte dell’Italia, di cui Mattarella sarebbe comunque informato come presidente del Consiglio supremo di difesa.
Altro fronte complesso, la protezione dai mercati dei Paesi ad alto debito. Il piano di riarmo, unito ai timori per i dazi, ha già avuto primi effetti sullo spread dei titoli italiani. Oggi il ministro Giancarlo Giorgetti, all’Ecofin, proverà ad attenuare il danno presentando uno schema europeo di garanzie pubbliche, dal nome European security & industrial innovation initiative, che, secondo le stime del Mef, potrebbe arrivare a mobilitare 200 miliardi di euro di investimenti privat.
Anche la proposta-Giorgetti intercetta, oltre al tema economico, anche quello politico. L’industria italiana della difesa ha molti intrecci con l’industria americana, consentirle di agire significherebbe anche schivare quel «buy european», «compra europeo», che favorirebbe maggiormente l’industria francese. È uno dei nodi su cui esprime incertezze la delegazione europea di FdI in vista del voto dell’Europarlamento di domani a Strasburgo.
Il lodo-Giorgetti intercetta la discussione dei ministri economici sui finanziamenti per il riarmo. Ieri a Bruxelles la questione dei fondi è stata oggetto di discussione anche a margine dell’Eurogruppo. Se ne riparla oggi a margine dell’Ecofin. I soliti “falchi” del Nord, Germania inclusa, si oppongono a Eurobond, intesi come titoli comuni di debito per fornire sovvenzioni, mentre non ci sono troppe obiezioni all’idea della Commissione Europea di “prestiti per prestiti” con il fondo da 150 miliardi di euro. «Siamo piuttosto scettici sugli Eurobond di per sé – ha detto il ministro delle Finanze di Berlino Jörg Kukies -, se aumentano solo il debito da distribuire ai Paesi per fare le loro cose a livello nazionale. Ciò su cui la Germania è molto aperta, e ciò che abbiamo sostenuto esplicitamente è, ogni volta che ci sono veri progetti europei nelle aree della difesa, pensare anche a un finanziamento comune». «I Paesi Bassi – ha detto l’omologo olandese Eelco Heinen - non sono a favore di Eurobond. Perché più debito sta anche indebolendo le nostre economie. Dobbiamo rafforzare la nostra sicurezza e rafforzare le nostre economie, e non puoi farlo con più debito strutturalmente». Secondo fonti diplomatiche, in realtà la maggioranza al Parlamento dell’Aja è contraria pure al fondo da 150 miliardi di euro, ma il governo cercherà d’imporsi. L’Olanda e il Belgio frenano pure sulle modalità di attivazione della clausola di salvaguardia (la sospensione di fatto del Patto di stabilità) per la difesa. «La flessibilità – ha detto Heinen - dev'essere limitata nel tempo, nello scopo, e la sostenibilità del debito dev’essere chiaramente sul tavolo, perché, ancora una volta, non puoi spendere per uscire da questa situazione attraverso il debito».
Oggi i ministri si ritroveranno a parlare, informalmente, della proposta tedesca di una modifica strutturale del Patto di stabilità per escludere le spese di difese dal rispetto delle regole di bilancio. Olanda, Austria, Danimarca, Svezia sono contrarie. E anche Bruxelles frena.