Come da un venefico vaso di Pandora, dallo scenario su cui si innesta lo scontro fra il sindaco di Bari Antonio Decaro e il Viminale, scaturiscono alcuni elementi di preoccupazione. Com’è noto, l'inchiesta da cui scaturisce la decisione dell’Interno di nominare una commissione d'accesso tratteggia un presunto intreccio tra mafia, politica e affari, col tentativo di condizionare il voto alle comunali del 2019.
Ora, se è vero che quelle elezioni furono vinte dal centrosinistra, lo è altrettanto che le figure politiche indagate erano all’epoca afferenti al centrodestra. E che la stessa procura barese ha escluso ogni coinvolgimento di Decaro, ringraziando anzi l’amministrazione per la collaborazione «nell'aiutare gli inquirenti a liberare questa città».
Antonio Decaro - ANSA
Alla luce di questo, viene da interrogarsi sull’opportunità della decisione del ministro Piantedosi. Non tanto rispetto alla natura dell’accesso «ispettivo», che è di sua competenza (e che, per sua stessa ammissione, non è detto che porti allo scioglimento del comune), quanto al timing, visto che la città si appresta a entrare in campagna elettorale per il voto delle amministrative di giugno.
Non sarebbe stato più prudente, verrebbe da domandarsi, attendere quantomeno una qualche cristallizzazione degli esiti giudiziari, per evitare - ed è ciò che in sostanza Decaro e il Pd denunciano, accusando alcuni esponenti di centrodestra di aver fomentato il ministro e chiedendo ora alla premier Meloni di riferire alle Camere - di dare anche solo l’impressione di uno “sgambetto” alla coalizione avversaria?
In un Paese già agitato da una costante tensione fra gli schieramenti in Parlamento, può diventare infatti davvero scivoloso - e poco sano in generale - trasportare acredini, rivalse e fibrillazioni politiche sul terreno “neutrale” e trasversale della lotta alle mafie, tanto più in un momento in cui il caso “dossieraggi” ha appena dato la stura a veri e propri miasmi, che non sarà semplice spazzare via.