domenica 9 ottobre 2022
Dopo 12 anni alla guida della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica, il professor Bellantone fa un bilancio sullo stato di salute dei nostri ospedali
Rocco Bellantone

Rocco Bellantone - .

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Una sanità da rifondare. A partire da «un nuovo patto tra Stato e Regioni», che metta al centro l’uniformità delle cure in ogni parte d’Italia, il superamento della vergogna delle liste d’attesa, l’attenzione ai più fragili. E poi il nodo da sciogliere dei medici e di quelli di famiglia, in particolare, senza la cui integrazione nel Servizio sanitario persino gli sforzi titanici messi in campo col Pnrr rischiano di essere del tutto inutili. Allo scadere del suo mandato alla guida della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica – dodici anni consecutivi di impegno nella formazione dell’eccellenza sanitaria italiana e internazionale – guarda al futuro del Paese il professore Rocco Bellantone, direttore del Governo clinico e del Centro dipartimentale di Chirurgia endocrina e dell’obesità della Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs. Senza fare sconti agli errori commessi sul piano della salute, ultimi quelli legati alla gestione della pandemia.

Professore, intanto come sta vivendo questo momento di passaggio? Dodici anni a contatto coi giovani aspiranti medici, in un momento in cui di medici abbiamo così drammaticamente bisogno, senza trovarne...
Sto vivendo questo momento con grande serenità perché guardandomi dietro le spalle vedo un lungo cammino nel corso del quale la Facoltà Medicina e il Policlinico Gemelli sono cresciuti enormemente, la prima aumentando il numero degli studenti e fornendo sempre maggiore qualità, il secondo ottenendo il riconoscimento come Irccs e – coi suoi 1.500 posti letto – classificandosi ormai da due anni consecutivi come primo ospedale italiano e trentasettesimo al mondo. Ma concludo il mio mandato soddisfatto e fiero d’essere stato il portavoce di una comunità cresciuta soprattutto nel rispetto della persona, seguendo quella che è la nostra missione di università cattolica con attenzione profondissima non tanto alle malattie quanto a chi soffre.

Perché all’Italia mancano medici?
La causa principale è stata una cattiva programmazione negli anni precedenti. Se sbagliamo a programmare vediamo i risultati tra 10 o 11 anni: un medico che possa lavorare, infatti, deve essere uno specialista, quindi affrontare 6 anni di corso di laurea più 4 o 5 di specializzazione. E anche per riparare al danno, dobbiamo contare 11 anni. Quello che ci manca oggi sono proprio gli specialisti, visto che in realtà il gruppo di laureati è in linea con quello delle altre nazioni europee. Coi tagli ai fondi della sanità c’è stata una riduzione delle borse di studio per gli specializzandi. Che fare? Riportare a un numero adeguato le borse di specializzazione, innanzitutto. E poi revisionare l’approccio degli specializzandi alla pratica clinica: è arrivato il momento di anticipare il loro inserimento a prima che finiscano il corso. Quanto all’accesso alla facoltà, va abolito il sistema atroce del test che in due ore fa sì che un ragazzo o una ragazza si giochino la propria vita: abbiamo 70mila candidati, non si può dire di sì a tutti perché le università non riuscirebbero a formare dei buoni medici. Serve allora selezionarli meglio andando agli ultimi due anni del liceo, facendo corsi di formazione dedicati.

Specializzandi di Medicina al Gemelli di Roma. Con i tagli ai fondi, sono calate le borse di studio

Specializzandi di Medicina al Gemelli di Roma. Con i tagli ai fondi, sono calate le borse di studio - .

Di sanità si è parlato molto poco in campagna elettorale. Come sta il Servizio sanitario italiano?
È una situazione a macchia di leopardo che stride drammaticamente coi principi della nostra Costituzione: un nostro cittadino ha un accesso alle diagnosi e alle cure che è totalmente diverso a seconda del posto in cui abita e questa è la plastica rappresentazione del crollo del programma sanitario nazionale. Serve un nuovo patto Regioni e Stato, col ministero della Salute, per arrivare a una sanità uniforme e di qualità dappertutto. E poi il nodo delle liste d’attesa, quello che a mio avviso dovrebbe davvero essere il primo programma per la salute d’Italia. C’è bisogno di un più ampio coinvolgimento dei medici di famiglia, che devono avere accesso alle liste di prenotazione degli ospedali e delle strutture accreditate sia per la parte diagnostica che per ricoveri. Nessun paziente deve più sopportare il torto enorme di prenotare un esame e attendere mesi per ottenerlo, o peggio ancora di avere necessità di un ricovero e sentirselo negare.

Professore, i medici di famiglia però sembrano proprio l’anello debole del sistema, e gli anni di pandemia l’hanno dimostrato bene...
I medici di famiglia sono stati maltrattati e sottovalutati in maniera incredibile: occorre ridare loro importanza, facendo sì che non siano un’entità completamente distaccata dal Servizio sanitario nazionale, ma pienamente integrata.

Quale dovrebbe essere il primo atto di un nuovo governo in tema di sanità?
Ridurre le liste d’attesa e ridare qualità omogenea alla sanità in tutto il Paese, anche con provvedimenti drastici nei primi 100 giorni di esecutivo. C’è poi un’altra questione: quella della qualità dei primari e dei direttori generali. Vanno fatte delle abilitazioni e delle liste nazionali, oltre a controlli periodici puntuali: non riesco a capire come mai un pilota di aereo debba essere costantemente sottoposto a delle verifiche perché ha la responsabilità di alcune vite umane e un primario o un direttore generale, che di moltissime vite hanno la responsabilità, non siano sottoposti agli stessi rigidissimi controlli.

Nel marzo del 2020, in piena pandemia, le è stata affidata anche la responsabilità di riconvertire il Gemelli in un Covid Hospital. Che esperienza è stata?
È stata un’esperienza drammatica per la realtà di fronte a cui ci siamo trovati nel periodo peggiore della pandemia ma, e torno alla mia vocazione di medico cattolico, è stato anche entusiasmante per la passione e l’eroismo che ho trovato nelle persone mi hanno affiancato. Questo ci ha permesso in sole 3 settimane di trasformare un ospedale generale in ospedale dedicato al Covid. E ci insegna che il nostro Paese ha nella sua classe medica e infermieristica delle grandi professionalità che però bisogna saper assecondare.

A proposito del virus, come vede la situazione del Paese oggi?
Temo che la pandemia ce la porteremo dietro ancora per molto tempo. Per fortuna in questa fase il ceppo imperante è molto meno pericoloso rispetto al passato. Dobbiamo imparare a convivere col virus e capire per tempo se e quando diventa pericoloso, ma quando non lo è dobbiamo evitare assolutamente tante cose che sono state fatte che hanno dato pochi benefici sul fronte della pandemia e grandissimi danni dal punto di vista sociale.

A cosa si riferisce?
Ci sono stati periodi in cui le imposizioni sono state esagerate. Sono convinto che si debba convincere la gente che le vaccinazioni sono importanti e utili, ma non penso che la strada giusta sia quella di imporle. La popolazione deve essere informata al meglio e messa nella condizione di scegliere. In determinate fasi, poi, si è partiti dall’assunto sbagliatissimo che la medicina possa essere matematica, che tutto quello che poteva dire un tecnico o più tecnici ed esperti in virologia potesse essere vero al 100%. Le scelte vanno fatto di concerto tra i tecnici e chi fa la politica con la P maiuscola, stando dentro ai bisogni sociali.

La sanità italiana vivrà nei prossimi anni anche la rivoluzione di una riorganizzazione delle strutture sul territorio con le case e gli ospedali di comunità, grazie ai molti fondi stanziati dal Pnrr. Lei che ne pensa?
Finché non si riformerà profondamente la professione del medico di famiglia questi saranno interventi del tutto velleitari, che procureranno solo spese e non vantaggi. Bisognerebbe impiegare i fondi per mettere in rete tutti gli operatori sanitari, cosa che oggi non avviene. Le case di comunità e tutto il resto vengono dopo.

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