martedì 17 luglio 2012
​Duemila persone impiegate nella raccolta degli agrumi in condizioni di grave sfruttamento. Il 90% lavora in nero e la paga giornaliera oscilla intorno ai 20-25 euro al giorno per dieci ore di lavoro.
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Sono “uomini trasparenti”: presenti quando c’è da spezzarsi la schiena in campagna ma invisibili per lo Stato e senza alcuna protezione giuridica. Così il dossier “Radici/Rosarno” definisce gli oltre 2.000 migranti impiegati come braccianti nella Piana di Rosarno. Tutti uomini principalmente provenienti dall’Africa subsahariana (il 22% dal Mali, seguono il Senegal con il 15%,Guinea con il 13%, e la Costa d’Avorio con quasi il 12%), con un’età media di 29anni. E senza permesso di soggiorno: il 72%, infatti è irregolare contro il 28% dei regolari. Inoltre la quasi totalità degli intervistati ha lavorato in nero (90,7% contro il 75% dell’anno scorso). Lo dice il “Dossier Radici/Rosarno”, un monitoraggio effettuato nel periodo autunno-inverno 2011/12, da Fondazione IntegrA/Azione e Rete Radici. Il volume, che ha indagato le condizioni lavorative, abitative e sanitarie e il livello di integrazione dei migranti, è stato presentato oggi a Roma.Ben il 90,7% degli intervistati lavora in nero (contro il 75% dello scorso anno): dalle ispezioni effettuate dalla direzione provinciale del Lavoro di Reggio Calabria in tutta la Piana di Gioia Tauro, infatti, su un totale di 1082 posizioni lavorative verificate, solo il 9% riguarda cittadini extracomunitari. I salari del 55,6% dei “campesinos” si aggirano tra i 20-25 euro al giorno per 8-10 ore di lavoro sotto il sole (contro il 76,37% dello scorso anno) mentre aumentano i lavoratori pagati “a cassetta” (37,4% contro il 10,44% dello scorso anno), con un prezzo standard di 1 euro a cassetta per i mandarini e 0,50 euro per le arance. Mediamente il 60% di loro riesce al lavorare dai 3 ai 4 giorni a settimana, ma una percentuale consistente di braccianti, e cioè il 24,7%, lavora meno di due giornate a settimana.Centrale, in questa catena di sfruttamento, resta il ruolo del caporalato. Sebbene la metà degli intervistati ha dichiarato di trovare lavoro in piazza, ben il 20% dichiara di trovare lavoro tramite un “kapò migrante” (quasi il 5% tramite un kapò bianco), ovvero una figura di intermediario tra il gruppo degli africani e i datori di lavoro. “I caporali provvedono a fornire l’ingaggio e spesso trattengono una percentuale della paga giornaliera che si attesta tra i 2,5 e i 4 euro a lavoratore”, si legge nel rapporto.Paghe da fame che obbligano i lavoratori a vivere nella miseria. Il 37,6% dichiara di vivere con nulla o molto poco (da 0 a 50 euro a settimana),  dormono in alloggi di fortuna, come i casolari abbandonati senza acqua né luce né gas e mangiando alle mense della Caritas. Ne consegue, inevitabilmente, soluzioni di alloggi di fortuna in condizioni igienico sanitarie spaventose, una dieta alimentare insufficiente e squilibrata e la mancanza di prevenzione, che aggiunte a un’attività lavorativa sfiancante, determina un precario stato di salute. Infezioni alle vie respiratorie (dovute in molti casi all’uso di sostanze chimiche nei campi), aggravate dal freddo e dal fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi, disturbi dell’apparato gastrointestinale per via di diete povere e dall’utilizzo di acqua non potabile e malattie infettive rendono questi lavoratori affetti da un numero elevato di patologie professionali.Puntare i riflettori sulla situazione di Rosarno non significa fare i conti solo con lo sfruttamento dei lavoratori e la grave violazione di diritti umani. Ma anche riflettere sulle problematiche di un settore, quello agricolo, in grande affanno da un paio di decenni, e di un sistema politico e legislativo che sull’immigrazione presenta ancora preoccupanti lacune.Secondo l’indagine, il vero nodo da sciogliere è “il modello mediterraneo dell’agricoltura” che è in piedi da un paio di decenni e si fonda su lavoro nero, sfruttamento e caporalato e inclusione differenziale: oer i migranti è praticamente impossibile sfuggire a questi meccanismi perversi. “Un sistema che si sorregge su un’economia di rendita fondata sull’assistenzialismo e su una produzione basata sulla quantità e su un’industria che non c’è”, si legge nel rapporto. Secondo i ricercatori, dunque, la vera sfida della Piana, sembra essere quella di saper andare oltre le arance, puntando su nuove colture e produzioni diversificate. Solo così si potrà garantire la vita delle aziende locali e la normalizzazione delle condizioni lavorative di chi quel settore lo sorregge con lavoro e fatica.
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