«Sto qui da sabato. Da quando ci hanno cacciati, sto dormendo per terra in piazza Indipendenza. Ma sono anziana, la schiena mi duole e non so quanto potrò andare avanti così. Perché ci hanno mandati via dal palazzo, se non sapevano dove farci abitare?». Amret è eritrea, ma si esprime in un italiano corretto. Da anni vive nel nostro Paese come rifugiata, è cordiale e si sforza di mantenere un sorriso di circostanza, ma è angosciata e sfinita dalle notti all’aperto.
Davanti al cordone di sicurezza dei celerini, attende che un familiare recuperi i suoi averi dal palazzo di via Curtatone, sgomberato sabato dalle forze dell’ordine. Nella piazza, accampati con coperte e borsoni, c’è oltre un centinaio del migliaio di persone che abitava nello stabile, un edificio di pregio degli anni Cinquanta, già sede di Federconsorzi, di proprietà di un fondo pensione ma occupato dal 2013 fino all’altro ieri da rifugiati e richiedenti asilo, in gran parte di nazionalità etiope o eritrea.
Ad altri cento migranti è stato consentito di restare temporaneamente dentro lo stabile: «Sono 60 donne, 35 minori e alcuni anziani con seri problemi di salute, come ci ha detto un funzionario del Comune», riferisce ad Avvenire Luca Blasi, dell’associazione Intersos, che curava un progetto sanitario nell’edificio. «Era una comunità autogestita con molto ordine – racconta Blasi –. Io ho lavorato in strutture per migranti e di rado ho visto un posto così ordinato. Non facevano entrare chi non aveva i documenti in regola. E i loro bambini vanno tutti a scuola e sono registrati alla Asl».
Lo sgombero – attuato sabato mattina con un intervento che ha impiegato diversi blindati e numerosi agenti – sta suscitando polemiche per via della mancata previsione di un ricovero per le persone allontanate.
Padre Zerai: sono tutti in regola. Incontro al Campidoglio
«Sono uomini, donne e bambini con l’asilo politico o addirittura la carta di soggiorno, cioè già fuoriusciti dai percorsi di accoglienza, e che dunque non possono essere ora ospitati di nuovo nei centri per migranti o negli Sprar», argomenta padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo e presidente dell’agenzia Habescia. Insieme a tre giovani connazionali, Zerai è stato ieri mattina in Comune, per chiedere una soluzione rapida per le persone rimaste in strada.
La sindaca Virginia Raggi e l’assessore alla Persona, scuola e comunità solidale Laura Baldassarre non c’erano. La mini-delegazione è stata ricevuta dai funzionari del gabinetto del sindaco. In giornata, il Comune ha avviato un tavolo di confronto permanente. «Ci hanno detto che faranno un censimento dei casi più vulnerabili: famiglie, minori, anziani e persone con problemi di salute. Ci sono diversi invalidi...», prosegue Zerai, ma «non credo che il Comune potrà fare granché, andrebbe attivata la protezione civile nazionale per tamponare l’emergenza di questi giorni. Abbiamo chiesto un appuntamento al prefetto di Roma, Paola Basilone, perché questo lo può fare solo il ministero dell’Interno o il governo».
«Il fallimento del sistema accoglienza»
L’occupazione dello stabile di via Curtatone, ricorda don Zerai, era iniziata nell’ottobre 2013, dopo la strage di Lampedusa dove persero la vita 368 migranti: «Questa vicenda – osserva amaro il sacerdote – rappresenta il fallimento del sistema accoglienza: da una parte lo Stato si assume la responsabilità di proteggere queste persone, dall’altra le lascia in mezzo alla strada. Non si può sgomberare senza un piano B. Ci sono famiglie con bambini che vanno a scuola, dove li porteranno? Non possono essere sradicati dal loro territorio».
Critiche e perplessità arrivano da enti umanitari come Amnesty International, Centro Astalli e Comunità di Sant’Egidio, che sollecitano una rapida soluzione. Su Twitter, il viceministro degli Esteri Mario Giro bolla lo sgombero come «indegno di un paese civile. Provoca insicurezza ai migranti e ai romani».
Un'altra notte senza un letto
È sera. Prima che il buio scenda su via Curtatone, davanti alle transenne, una trentina di donne intona cori di protesta: «Vergogna! Viva le donne e i bambini! Via, via la Polizia!». Gli agenti, addestrati, restano impassibili. Tre ragazzini si staccano dal gruppo e corrono dietro a un palloncino: «Attenti alle macchine», li avverte la mamma. Dieci metri più in là, nella piazza, in una distesa di bustoni e vecchi trolley c’è chi si attrezza per trascorrere la terza notte all’aperto, stendendo coperte nei giardinetti che fungono da rotatoria. L’anziano Tadesse, etiope con un permesso di soggiorno per asilo politico, si appoggia a una stampella. Ha dormito in strada per due notti: «Non so se ce la farò ancora. Ho avuto tre operazioni, ho sei ferri in una gamba, sono invalido al 70 per cento. Lì dentro almeno avevo un letto, qui non è possibile stare».
I volontari di Medici senza Frontiere intervistano i profughi, in un presidio sanitario e psicologico volante: «Visitiamo chi ne fa richiesta e cerchiamo di prenderci cura dei loro traumi», racconta Amahd al Rousan, di Msf. Sulla cancellata del palazzone, campeggia un lenzuolo con la scritta «Siamo rifugiati, non terroristi». Un messaggio a chi strumentalizza a fini politici le paure suscitate dai nuovi attentati in Europa: «L’Italia ci ha accolto perché eravamo perseguitati – conclude un giovane sfollato, seduto sul marciapiede –. Perché ora ci tratta così?».