sabato 18 agosto 2012
Le richieste delle aziende rilanciano la formazione professionale, percorso formativo che a lungo è stato considerato "residuale". Che invece si rivela strategico per affrontare il disagio giovanile. E in cui fioriscono nuove iniziative.
COMMENTA E CONDIVIDI
​«Se proprio non sai cosa fare, iscriviti a un corso di formazione professionale, almeno impari un mestiere». È una frase molto detta e molto sentita, che rivela la convinzione diffusa che il lavoro manuale sia qualcosa di residuale, riservato a chi non ha capacità intellettuali. È il frutto di una mentalità che impedisce di riconoscere e valorizzare le attitudini e le capacità che ogni giovane ha in sé, e preclude al nostro sistema produttivo la formazione di professionalità indispensabili e in certi casi quasi introvabili, come dimostrano varie ricerche che mettono ai primi posti nel borsino dei mestieri figure come cuochi, camerieri, segretarie, addetti alle pulizie e alle persone, operai specializzati nell’industria alimentare, nella lavorazione del legno e della carta. Si sancisce così la rottura del rapporto tra formazione professionale e sistema produttivo che nel nostro Paese aveva generato un grande tessuto imprenditoriale.
La crisi economica rappresenta l’occasione per un ripensamento, per un cambio di mentalità, e forse per una sorta di rivincita di quella che viene considerata la Cenerentola del percorso formativo. Qualche segnale in questa direzione sembra arrivare dai dati sulle scelte fatte dai 560mila giovani che hanno terminato il primo ciclo di istruzione. Diminuiscono le iscrizioni ai licei (-2%), aumentano quelle agli istituti professionali (+1,5) e agli istituti tecnici (+0,4), con una quota maggiore di crescita per l’indirizzo «enogastronomia e ospitalità alberghiera».
Nell’area dei Cfp (corsi di formazione professionale), in questi anni sono nate numerose iniziative che sono andate ad affiancarsi a quelle che vantano una tradizione consolidata (come quelle promosse da congregazioni religiose). E la collaborazione tra imprese e realtà sociali ha permesso di salvare dall’abbandono scolastico molti ragazzi su cui pochi osavano scommettere, e di valorizzare talenti rimasti inespressi, insegnando loro mestieri necessari alle aziende e spesso disertati da giovani, anche disoccupati. Gli orientamenti dettati dall’Unione Europea indicano nell’alternanza scuola-lavoro un fattore essenziale per la futura carriera professionale, mentre nel nostro Paese continua a prevalere una sorta di automatismo: prima si studia, poi si lavora. Sotto il profilo normativo è ancora lunga la strada per l’affermazione di un effettivo doppio canale che affianchi la formazione professionale alla scuola tradizionale, ma le esperienze positive che si registrano in alcune Regioni testimoniano che questa è la strada da seguire. Lo confermano anche le esperienze pubblicate in questa pagina e altre che sono protagoniste della mostra «L’imprevedibile istante. Giovani per la crescita», allestita dalla Fondazione per la sussidiarietà in occasione del Meeting di Rimini, che verrà inaugurata domani dal premier Monti e di cui Avvenire è mediapartner.
Giorgio Paolucci
 
IL FIGLIO SCEGLIE LA TUTA BLU?
«NON GIUDICATELO UN INSUCCESSO»
«Papà da grande voglio fare il meccanico d’auto!». Davanti a questa affermazione è statisticamente probabile che il genitore venga invaso da un certo disagio (ma vale anche per la commessa, la parrucchiera, il cuoco...). Sembra infatti che nel nostro Paese la scuola trovi l’unica espressione di eccellenza nel liceo, relegando il resto a un progressivo discendere verso i gradini più bassi dell’istruzione che poi diventa, infatti, "formazione" professionale. Alla radice c’è un problema culturale, in quanto il lavoro, specie quello manuale, è visto in contrasto con una piena e dignitosa realizzazione della persona. Ma con la crisi qualcosa cambia: le famiglie e i giovani stanno aprendo gli occhi davanti a un esercito di laureati che dopo anni rimangono in posti precari e non attinenti il percorso di studi.
L’Italia è cresciuta grazie a fior di imprenditori che facendo la gavetta in fabbrica o nel laboratorio artigianale di famiglia hanno realizzato aziende e prodotti all’avanguardia. E comunque fare l’idraulico, il panettiere, la segretaria non è meno importante che diventare medico o ingegnere; ognuno dovrebbe poter tentare la strada dettata dalle proprie aspirazioni e potenzialità, con la coscienza che ogni mestiere è degno e necessario per il bene comune. È il delicato argomento dell’orientamento che alle medie inferiori punta invece ancora sulla "classifica" delle scuole e alle superiori praticamente solo sull’informazione. E pensare che tutti noi facciamo la quotidiana esperienza che «per scegliere occorre iniziare a scegliere», provare cioè a verificare concretamente quello che sentiamo più corrispondente ai nostri desideri e capacità. In fondo tutto il metodo della formazione professionale è qui: permettere ai giovani di misurarsi da subito, attraverso laboratori e stage con una passione e una potenzialità magari appena intraviste. E accade che migliaia di ragazzi prima svogliati e tristi ritrovano una motivazione e, udite udite, si dichiarano contenti di andare a scuola.
Dove si scommette sulla formazione professionale, «cultura» e «fare» non sono in antitesi. Un esempio significativo viene dalla Lombardia dove molti giovani hanno potuto frequentare, presso i centri di formazione professionale, un quinto anno di preparazione alla maturità. Hanno imparato un mestiere di cui vanno fieri, ma hanno anche potuto misurarsi con i loro coetanei agli esami di maturità. Anche quei pochi che, diventati elettricisti o meccanici, hanno proseguito all’università sono lì a dire che non esiste una «scuola unica», ma che a ognuno si deve proporre la strada più idonea per raggiungere traguardi realmente equipollenti. È anche la sfida della «didattica per competenze», che potrebbe rappresentare una novità vera per i milioni di studenti che a scuola vogliono conoscere la realtà, ma soprattutto tornare a imparare da essa attraverso l’esperienza in aula. Una nuova opportunità per contrastare e provare a vincere la crisi.
Diego Sempio - rettore Fondazione Ikaros
 
IL TOP-MANAGER SALESIANO
Smontando una mentalità che lo considera come qualcosa di meno nobile rispetto allo studio, il metodo salesiano esalta il ruolo del lavoro nel processo formativo dei giovani. E fa dell’alternanza tra scuola e lavoro un cardine della proposta educativa che ha aiutato migliaia di giovani a costruire un futuro professionale e umano che arriva fino a posizioni di eccellenza. Come è successo a Massimo Pizzocri, cinquant’anni, oggi top manager. «Lo ricordo come fosse oggi: frequentavo la terza media, durante una visita al laboratorio dei Salesiani di via Tonale a Milano nell’ambito delle attività di orientamento per la prosecuzione degli studi, rimasi affascinato da una macchina per la stampa: i fogli entravano bianchi e uscivano stampati con ogni sorta di immagini e colori. E mi affascinava l’idea che si potesse combinare lo studio delle materie tradizionali con l’apprendimento di un’attività manuale, senza aspettare la fine degli studi. Lei non immagina quale soddisfazione procurava a dei quindicenni l’essere coinvolti in vere e proprie commesse di lavoro, come è nella tradizione salesiana: qualcosa che usciva dalle nostre mani, che doveva soddisfare le esigenze di qualità e le tempistiche richieste dal cliente. Ci sentivamo protagonisti di un’impresa umana e professionale».
Dopo i tre anni del Corso di formazione per arti grafiche, il giovane Pizzocri supera l’esame integrativo per accedere al quarto anno dell’Istituto tecnico, che a quei tempi era solo serale. «Abitavo fuori Milano, mi alzavo alle 6 per andare a lavorare presso l’ufficio tecnico della tipografia dei Salesiani, dove mi occupavo di preventivi e consuntivi, poi c’era la scuola e a mezzanotte rientravo a casa. Anni duri, che però hanno forgiato la mia personalità». I primi gradini di una carriera che lo ha portato in alto, fino a ricoprire le cariche di amministratore delegato di Epson Italia e vicepresidente vendite di Epson Europa, azienda-leader nel settore della stampa digitale e della videoproiezione.
«Continuo a fare tesoro della lezione salesiana: ogni persona ha talenti da valorizzare, ogni lavoro ha una sua dignità che non dipende dalla retribuzione ma dall’uomo che lo compie, ognuno porta il suo mattone all’opera comune». Cosa direbbe ai genitori che considerano la formazione professionale un percorso di serie B? «Se un giovane non è portato agli studi umanistici o scientifici ed è affascinato dalle attività manuali, vanno assecondate le sue inclinazioni, sapendo che la formazione professionale non preclude la possibilità di proseguire il percorso e che oggi il mercato del lavoro richiede un aggiornamento continuo. Pochi mesi fa ho fatto il Cammino di Santiago de Compostela a piedi, e ho capito ancora una volta che se si vuole raggiungere una destinazione bisogna avere una grande determinazione, perché ciò che conta è il viaggio da compiere. Si deve fare un passo dopo l’altro, con le forze e i talenti che Dio ci ha dato».
Giorgio Paolucci
 
«ADDIO AL LICEO CLASSICO, DIVENTERO' CHEF»
LA SCELTA DI STELLA, DAI BANCHI ALLA CUCINA
Anzitutto l’idea. È sempre il primo ingrediente: il più difficile da trovare, perché impossibile da comprare. A Francesca è venuta in mente una mattina del luglio di sette anni fa. Così, all’improvviso. «Ho deciso di lasciare il liceo per frequentare l’istituto alberghiero e diventare chef», le poche parole che hanno spiazzato la famiglia riunita a colazione. «Il capriccio di una 15enne», la prima reazione dei genitori. In fondo non c’era motivo di abbandonare gli studi classici, la ragazza aveva una media del 7. «Le passerà», si ripetevano mamma e papà, entrambi dirigenti nella pubblica amministrazione, e con le prime tre figlie avviate in Magistratura e nelle Poste. Ma l’ultima delle quattro sorelle aveva già deciso che il suo futuro professionale non si sarebbe consumato dietro una scrivania.
Il "capriccio" è durato molto più di un’estate e adesso, sette anni più tardi, si è trasformato in realtà. Francesca Stella oggi ha 22 anni e da due settimane si è trasferita da Roma ad Amantea, nel Cosentino, dove ha aperto un piccolo ristorante. Una storia in controtendenza. Una giovane della generazione spread che per inventarsi un lavoro non sceglie il ricco Nord, ma si inoltra nel profondo Sud: «A Roma non c’era possibilità di lanciarsi nella ristorazione: servivano troppi soldi e la concorrenza era agguerrita, allora ho pensato di tornare nel paese d’origine dei miei genitori, che dopo l’iniziale diffidenza mi hanno sempre sostenuto e oggi sono diventati i primi clienti del "Magna Grecia", il mio locale». Ecco la vera sfida di Francesca: una nuova attività in una terra ancora profondamente ferita dalla ’ndrangheta. Stella non è spaventata e si concentra sul lavoro: «È una sorta gastronomia in cui si gustano prodotti tipici della zona, rivisitati in chiave nutrizionista – racconta la giovane chef –. Ogni giorno preparo piatti come la parmigiana di melanzane (gratinate, non fritte) lo sformato di fiori di zucca e le zucchine ripiene con crudo e provola silana».
Prima di lanciarsi in quest’avventura sono serviti anni di studio: «Ho trascorso quella famosa estate sui libri, perché ho dovuto sostenere una serie di esami per l’iscrizione all’Istituto professionale paritario servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera Safi Elis. Lì ho ricevuto un’istruzione di altissimo livello: la mattina le lezioni e il pomeriggio la pratica con corsi di ristorazione. Vivevo nella struttura cinque giorni della settimana, poi rientravo a casa nel weekend». Rinunce e sacrifici: «Durante l’anno avevo poco tempo per uscire con le amiche, che non riuscivano a darsi una spiegazione. E anche d’estate le mie vacanze si chiamavano stage», ricorda Francesca. Le esperienze in Italia e all’estero sono continuate anche dopo il diploma. Tra queste, il corso di cucina all’Alma con il maestro Gualtiero Marchesi, laboratori con chef come Carlo Cracco, Paolo Lo Priore e Aurora Mazzucchelli. «È stato un arricchimento, ma anche una lezione di vita. Fare lo chef è fatica, resistenza, costanza. I mesi di lavoro come dipendente in un wine bar romano me l’hanno fatto capire dal punto di vista pratico». Degli ultimi tre anni trascorsi tra Modena, Bologna, Parigi e Amsterdam, Francesca ricorda soprattutto una frase: «L’esempio è la miglior forma di insegnamento», le ha detto Gualtiero Marchesi. Oggi è diventata anche la sua ricetta. Quella che cerca di portare a tavola ogni giorno.
Luca Mazza 
 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: