«Abbiamo discusso, ora si vota». Matteo Renzi cerca brutalmente la prova dei numeri nella direzione Pd. E la vince, com’era scontato: 93 si, 12 no dei civatiani, 8 astenuti cuperliani. Con qualche coda polemica, perché la minoranza prima ha cercato di evitare la conta, poi si è lamentata perché in diversi avevano già lasciato la sede. D’altra parte la relazione del segretario-premier è dura da ingoiare: sancisce come «intoccabili» la riforma dell’apprendistato e dei contratti a termine inseriti nel decreto ora all’esame della Camera, accelera e sottrae al Parlamento la riforma del Senato e titolo V («Lunedì il governo presenterà il ddl»), impone due vicesegretari - Guerini e Serracchiani - rinviando di fatto al dopo-Europee e al dopo-amministrative una riorganizzazione del partito che coinvolga anche chi non è "in linea".
Ai delegati della direzione, la segreteria Pd fa trovare in cartellina l’ultimo sondaggio Swg, che dà il Pd al 35 per cento, dieci punti in più di M5S e Forza Italia. «La nostra è la strada giusta, e siamo appena all’inizio. Possiamo andare oltre se continuiamo a fare quello che abbiamo promesso», è il mantra che il premier fa circolare tra i fedelissimi prima della riunione. Parole che sanno di sfida: «Non accetto ultimatum – attacca il segretario aprendo la direzione e riferendosi esplicitamente ai critici del jobs act –. Il dl Lavoro fa parte di un pacchetto unico». Se si dice «sì» al decreto che taglierà le tasse per 85 euro al mese a chi guadagna sui 1300-1500 euro («È una quattordicesima, più di quanto i sindacati abbiano mai strappato in un rinnovo contrattuale...»), bisogna dire «sì» anche a questo provvedimento, che strizza l’occhio «al panettiere che vota Pd e non sa se vale la pena assumere, rischiare...». Chi si mette di traverso, è il senso del suo ragionamento, avrà la colpa sia di una eventuale sconfitta alle Europee sia dello sfarinamento del Pd. Quel che il premier vorrebbe dire ma non può, lo dice il suo fedelissimo Paolo Gentiloni. «La gente mi ferma per strada e dice "onore’ non rompete le scatole - per usare un eufemismo - a Renzi». In questa fase il Pd è al bivio, ragiona il segretario: può seguirlo nelle riforme o mettersi a fianco a Cgil, Confindustria e le altre forze politiche nel «partitone di chi fa resistenza a tutto». Il messaggio che manda a Damiano, Fassina e tutte le personalità più sensibili ai richiami di Camusso è raggelante: «Le norme restrittive volute dai sindacati hanno portato la disoccupazione giovanile dal 25 al 40 per cento». Parole che fanno imbufalire il leader Cisl Raffaele Bonanni, sempre più insofferente «a questa nauseante telenovale sul ruolo dei sindacati».
Non si lascia imbrigliare, Renzi, nemmeno sulla politica economica. Il lettiano Francesco Boccia gli chiede di convocare una direzione sul Def, il documento che ridefinisce gli obiettivi macroeconomici per il 2014 e dunque traccia il sentiero per il taglio delle tasse. «No – replica Renzi –, al massimo coinvolgeremo qualche personalità del Pd e i nostri riferimenti nelle commissioni Bilancio». Non si concerta con i sindacati, figurarsi con il suo partito. D’altra parte i tempi non consentono indugi: Renzi fissa al 12 aprile l’inizio della campagna elettorale a Torino, ciò significa - e il suo staff conferma - che il decreto "taglia Irpef" sarà pronto il 10.
Quanto alle riforme, Renzi mette nero su bianco la nuova tempistica: prima si chiude Senato e titolo V, poi Palazzo Madama farà la seconda lettura dell’Italicum. Nella relazione del premier, però, sparisce la "deadline" delle Europee: si mette in conto che il superamento del bicameralismo perfetto potrebbe incassare, prima del 25 maggio, solo il «sì» della commissione Affari costituzionali e non dell’Aula E la nuova legge elettorale diventerebbe un obiettivo da raggiungere entro il primo luglio, quando inizia il semestre europee. Una dilatazione dei tempi che servirà a correggere l’Italicum, dato che Renzi considera «non sufficienti» i miglioramenti sinora apportati.
Nonostante il segretario sostenga che «la certezza dei tempi ci rende credibili davanti ai cittadini e all’Europa», non sono i giorni in più o in meno a fare la differenza, ma il senso che si va avanti e i risultati arrivano davvero. «Potevamo stupirvi con effetti speciali – dice in conclusione riprendendo la storica pubblicità di un televisore – ma abbiamo scelto gli effetti normali». Laddove la normalità è chiudere le province, tagliare le macchine blu, spendere bene i soldi per l’edilizia scolastica, non sprecare i fondi Ue. E fare le riforme di cui «si discute da 30 anni». La prossima, quella della pubblica amministrazione e delle burocrazia: «Dobbiamo forzare il sistema, per sapere i numeri di un bilancio si apre un dibattito tra i dirigenti, quando dovrebbe bastare un clic».