L'affondo di Stefano Fassina come
cartolina della giornata, la richiesta di "lealtà" da parte del
premier-segretario come avviso ai naviganti. Sullo sfondo, i
mesi cruciali delle riforme e la partita del Colle. Anticipata
da una scia di veleni e dai venti di scissione l'assemblea del
Pd regala nuove scintille tra la minoranza Dem e Matteo Renzi
che, senza mezzi termini, tenta di azzerare la possibilità di
nuovi "diktat" in Parlamento, scegliendo tuttavia di non
arrivare allo strappo, neppure dopo l'attacco frontale dell'ex
viceministro, che dal palco sbotta: "Se vuoi andare al voto
dillo".
Non mancano, insomma, toni forti e duri botta e risposta
nell'assemblea convocata in un hotel a due passi da Villa
Borghese dopo che in settimana, in commissione alla Camera,
sulle riforme si era consumata l'ennesima battaglia tra renziani
e minoranze di un partito che il presidente Matteo Orfini non
esita a paragonare, per quantità e densità delle trame, alla
serie "Trono di spade". Eppure, chi si attendeva una resa
dei conti totale, è rimasto deluso.
Certo, Renzi non si tira indietro invitando il Pd a fare, e
non osservare, i cantieri. "Noi siamo quelli che cambiano
l'Italia, non quelli che stanno a mugugnare", sottolinea il
premier che poi affonda: "Il Pd non è un partito che va avanti a
colpi di maggioranza ma sia chiaro che non starà fermo nella
palude per i diktat della minoranza". Una palude che Renzi vuole
evitare e, sottolinea, oggi è su di lui che ricade questa
"responsabilità". Chi non è d'accordo non deve sottostare a un
"principio di obbedienza" ma di "lealtà" al partito. E chi vuol
cambiare premier o segretario "si metta il cuore in pace", non
avverrà prima del 2017 e del 2018, avverte il rottamatore.
Ma le sue parole non servono a spegnere il dissenso.
L'assenza di Massimo D'Alema fa rumore, Pier Luigi Bersani è
fermo per un "mal di schiena", ma sul palco i toni di Alfredo
D'Attorre e Gianni Cuperlo non sono certo morbidi, con il leader
di Sinistradem che, se da un lato accantona la parola scissione,
dall'altro entra in tackle nel confronto Renzi-sindacati e
avverte: "Le piazze non diventino il nemico del Pd".
Poi tocca a Fassina che, in un crescendo di concitazione
affonda bollando il Pd come "il partito della troika e
dell'establishment" e poi sbottando: "Non ti permetto più di
fare caricature di chi la pensa diversamente da te, è
inaccettabile". Parole che sembrerebbero preludere ad una
replica di fuoco del premier. Ma Renzi opta per non far votare
la sua relazione - tra i motivi per il quale in tanti lasciano
la sala in anticipo - e non evoca alcun provvedimento
disciplinare sul dissenso sulle riforme. Un percorso che Renzi,
dopo il sì di sabato in commissione, torna blindare nei tempi -
ribadendo tra l'altro che l'Italicum sarà a gennaio in aula al
Senato - e nei contenuti, non risparmiando una stoccata a chi,
giorni fa, evocava l'Ulivo. "Noto un certo richiamo nostalgico,
ma l'Ulivo non è un santino, è stato mandato a casa dai nostri
errori e noi realizziamo le sue promesse" ma "abbiamo perso 20
anni".
Riforme sulle quali, è il punto fermo del premier, i
sindacati "non hanno potere di veto" e che non prescindono da
una lotta alla corruzione oggi più che mai attuale. E sul tema,
Renzi cerca di spalar via ogni dubbio, soprattutto tra gli
elettori. "Chi è disonesto non può camminare con il Pd. Chi
sbaglia paga anche nel Pd", afferma non risparmiando una nuova
frecciata ai magistrati: parlino con le sentenze e non con le
interviste.
Ma quella di ieri è anche l'assemblea del saluto, "forse
l'ultimo", al presidente Giorgio Napolitano che Renzi cita e
difende, accompagnato dall'applauso della platea in piedi,
dicendosi certo che questo Parlamento potrà eleggere il
successivo. Un Parlamento, è la chiusura di Renzi, dove su
nessun tema deve prevalere "l'anarchia" di partito. A gettare benzina sul fuoco per la successione a Napolitano è il leader di Fi Silvio Berlusconi che ribadisce la sua posizione, granitica, sul Colle: la scelta nel nuovo presidente della Repubblica è parte intergante del patto del Nazareno e Fi intende dire la sua. E rivendica la necessità di un presidente "gradito" e non scelto dal Pd. Non è un caso che il Cavaliere torni sull'argomento, ben consapevole che le sue dichiarazioni ottengono l'effetto sperato e cioè agitare ancora di più le acque dentro il Pd. Renzi sceglie di non replicare e affida la risposta, nessun patto sul Quirinale, a Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini.