Dietro le sbarre ogni giorno si consuma un massacro. Ieri, altri due detenuti si sono tolti la vita. Ad Ariano Irpino, nell’Avellinese, carcere di Tricolle, un 40enne originario della provincia di Salerno si è impiccato all’inferriata della sua cella utilizzando una cintura. Inutili i tentativi di salvarlo. L’altro suicidio è avvenuto nel penitenziario di Lecce. E non è il primo dentro quelle mura.
Arrivano così a 77 le morti “per mano propria” di detenuti dall’inizio dell’anno ad oggi, un tragico primato che non ha uguali in Europa, in rapporto alla popolazione carceraria, e nemmeno nella storia recente del nostro Paese (furono 72 in tutto il 2009, anno dell’ultimo triste primato). A fornire la cifra ufficiale dei suicidi è Mauro Palma, presidente dell’Autorità del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Numeri inquietanti. Quali sono le cause? E qual è il “male oscuro” che spinge i ristretti in cella a uccidersi o, in altri casi, a scatenare aggressioni, disordini e sommosse? Inghiottiti dal vortice sono per la maggior parte giovani, finiti dentro per reati minori, con pene irrisorie o in attesa di processo, migranti o persone senza dimora. «Insomma, quelli che in galera non ci devono stare, soggetti dipendenti da alcol o droga, malati psichiatrici, i più fragili» commenta Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (Spp).
Anche qui, per cercare di capire il fenomeno, bisogna partire dai numeri: fino a ieri, i detenuti nelle 192 case circondariali italiane erano 56.434, cioè oltre seimila in più rispetto alla capienza regolamentare consentita. Perché il sovraffollamento è la prima ragione del disagio. Ci sono poi la carenza di personale e l’inadeguatezza degli ambienti, spesso in condizioni igienico-sanitarie precarie. Ma l’aspetto forse più grave è che tra tutti quelli che si trovano chiusi in una prigione, solo 39.860 hanno avuto una condanna definitiva, il resto è in attesa di giudizio oppure sconta una pena per una sentenza non ancora passata in giudicato. Palma sottolinea inoltre come tra questi, 1.461 hanno sulle spalle pene già inflitte che vanno da zero a un anno mentre 2.577 devono scontare tra uno e due anni. E sono queste categorie le più esposte al suicidio. Come affrontare questa emergenza che sembra senza fine? «La prima cosa è costruire nuovi carceri – risponde il sindacalista – evitare che in carcere ci siano queste persone per le quali la detenzione è peggiorativa». «Bisogna fare attenzione quando entrano, è il momento cruciale, parliamo di immigrati che non conoscono l’italiano o di senza dimora che non hanno nemmeno uno straccio di avvocato a cui affidare le proprie sorti, 5mila detenuti poi non hanno conseguito l’obbligo scolastico» risponde il Garante, che aggiunge: «Servono strutture territoriali di controllo e supporto per evitare che vada in carcere chi potrebbe invece fare un percorso alternativo». Altro dato allarmante: sono 186 i carcerati deceduti nel 2022, tra essi ve ne sono 27 “per cause da accertare”. E ieri si è suicidato anche un agente di polizia penitenziaria, il quarto in dieci mesi. Perché chi deve sorvegliare spesso si trova nelle stesse condizioni di disagio e di angoscia di chi è recluso. Spesso però, la decisione di uccidersi dipende da fattori esterni, come nel caso di Antonio R. che si è tolto la vita alle Vallette di Torino la scorsa settima perché, come si è dedotto dal biglietto che ha lasciato in cella, aveva perso la potestà genitoriale del figlio.
E dicono “basta” al massacro dei suicidi in carcere anche i firmatari di un appello al governo promosso da “Ristretti Orizzonti” che chiedono di aumentare le telefonate per i detenuti, di alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata, di creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi, attuare al più presto, per seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa. E, infine, depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità.