E’ una questione di tempo. Rallentato, allungato, dilatato. Minuti che si trasformano in ore, giorni in mesi, anni in generazioni. Un tempo così vuoto e così lento da fermarsi. Vite immobili consumate in surplace. E’ quello che, tutti, oggi, un po’, almeno un po’, stiamo vivendo nel confinamento, nell’isolamento, nella solitudine, nella clausura. E che dà un’idea, per quanto superficiale e approssimativa, della dimensione psichica di chi viene privato della libertà.
Gabriele Benedetti, attore e autore di spettacoli teatrali (e anche televisivi e cinematografici) da trentun anni (“Meno uno, l’ultimo, rimasto sospeso, anch’esso immobile e consumato in surplace”), per obbedire ai provvedimenti contro la diffusione del Covid-19, ha tradotto la performance “live” in un video “costruito”: “Il rumore del carcere è il rumore del ferro”. Tema, argomento, materia: la solitudine. “Il luogo è diventato l’ex manicomio di Udine, nelle sue parti più abbandonate ma agibili, i padiglioni femminili, le celle segnate dal degrado. I testi sono quelli dei detenuti, un viaggio dentro, nel profondo, nell’intimo”.
Non è nuovo, Benedetti, a lavori che scavano in chi è stato spogliato e chiuso. “Tre anni fa, nel carcere di massima sicurezza a Tolmezzo, uno spettacolo con i detenuti – ricorda -. C’erano 14 cancelli che separavano corridori e garritte. E 14 orologi che scandivano e sillabavano il tempo. I 14 cancelli aperti e subito sprangati. E i 14 orologi fermi, ma tutti a orari diversi. I 14 cancelli, con quel clangore metallico di chiavi. E i 14 orologi, muti”. Ancora Benedetti: “Ai detenuti domandai che cosa volessero da quello spettacolo. La risposta all’unanimità: allegria”.
“Il rumore del carcere è il rumore del ferro” è dedicato a Maurizio Battistutta: “Da volontario a garante dei diritti umani dei detenuti, fondatore dell’associazione Icaro, morto nel 2017. Lui voleva restituire dignità, rispetto, il giusto senso dello scorrere del tempo”. E fa parte di “Alla fine della città”, il progetto triennale dell’associazione Ti con Zero tra narrazione, arte e viandanze, fino al 30 novembre, stavolta – causa Covid-19, in versione digitale, con video e tutorial, incontri virtuali e racconti radiofonici. Il primo anno c’è un verbo che coniuga le diverse iniziative: accendere. Accendere un gesto, un’idea, un’emozione, un registratore, un territorio. Nel caso dell’opera di Benedetti, accendere una luce.
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