martedì 5 novembre 2024
Monsignor Cevolotto durante il funerale della 14enne, gettata da un balcone dal coetaneo che frequentava: «Non cerchiamo colpevoli, piuttosto prendiamoci le nostre responsabilità»
Il ricordo dei compagni davanti a scuola

Il ricordo dei compagni davanti a scuola - Ansa

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Il viso di Aurora Tila hanno imparato a conoscerlo tutti, a Piacenza. È il viso di un’adolescente di nemmeno 14 anni che, seminascosto dai lunghi capelli, guarda divertito dentro l’obiettivo. Nella foto scelta dai familiari per il ricordo funebre, poggiato sulla piccola bara bianca, quello sguardo da bambina continua a interpellare. Mistero della sofferenza, che rende vicini, che accorcia le distanze. «Aurora, basta ormai chiamarla per nome, è diventata figlia, sorella, nipote, amica di tutti e di ciascuno», ha riconosciuto il vescovo Adriano Cevolotto ai funerali, oggi, in una Cattedrale gremita di “piccole” Aurora.

Ragazzine come lei, con la stessa felpa, gli stessi jeans, lo stesso zainetto. Gli stessi occhi pieni di speranze e di sogni. Tutte in fila, in una processione ininterrotta, a poggiare sul feretro una rosa bianca legata da un fiocco rosso. E, insieme a loro, coetanei maschi, insegnanti, genitori. Nonni che si asciugano le lacrime sotto gli occhiali. Mamme che abbracciano le figlie. Coppie di giovanissimi che si abbracciano tra loro. È giornata di lutto cittadino. Nelle scuole, ogni classe ha osservato un minuto di silenzio per Aurora. Ha ragione il vescovo: «C’è una profonda partecipazione a una vicenda assurda, che ha lasciato e lascia senza parole, attoniti. Con una domanda che passa di bocca in bocca: cosa sta succedendo?».

Sono passati dodici giorni da quella terribile mattina del 25 ottobre. La mattina in cui Aurora ha perso la vita, cadendo dal settimo piano del palazzo di via IV Novembre dove viveva con la mamma Morena e la sorella maggiore Aurora Viktoria. Con l’accusa di omicidio volontario, si trova nel carcere minorile di Bologna il suo ex ragazzo, 15 anni e già un passato turbolento alle spalle, inclusa una sospensione da scuola per aver minacciato un insegnante.

Lui nega ogni responsabilità per l’accaduto. Ma un testimone avrebbe assistito alla scena in cui la ragazzina, aggrappata alla ringhiera, viene colpita sulle mani e fatta precipitare su una terrazza alcuni piani più in basso. L’autopsia ha confermato che la morte è dovuta ad un grave trauma cranico compatibile con una caduta.

«Cosa sta succedendo?» è la domanda, che, da allora, si pone un’intera città. Insieme ad altre, più scomode. Si poteva evitare? Cosa si doveva fare? Chi doveva farlo? Ma c’è una domanda che fa più male di tutte: perché? «Quando emerge questa domanda, spesso senza risposta, significa che è stato toccato un nervo sensibile, che interroga il senso delle cose e della vita. È doveroso cercare di capire cosa è successo, è fuorviante la ricerca di colpevoli su cui scaricare ogni responsabilità», è il richiamo del vescovo, che ha chiesto piuttosto alla comunità piacentina di lasciarsi interpellare da una sofferenza familiare divenuta sofferenza collettiva. Se è vero che «i nostri ragazzi si incuneano immediatamente nelle crepe delle nostre divisioni, della sfiducia che respirano tra le diverse figure adulte con cui hanno a che fare» - ha evidenziato monsignor Cevolotto – il mondo adulto, a tutti i livelli, è chiamato a crescere «nel vivere la responsabilità non solo verso i propri figli ma anche verso gli altri». È un compito che si può portare avanti solo insieme. «Abbiamo bisogno di sostenerci, perché da soli sarà sempre più difficile. Ognuno metta la sua parte: parrocchie, oratori offriamo la nostra parte, con ciò che ci è proprio, promuovendo rete con le famiglie e le altre agenzie educative».

Dentro l’emergenza educativa, c’è il tema, forte, dell’educazione agli affetti. «Non possiamo, né dobbiamo spegnere i sogni di un o una adolescente. Né tantomeno permettere che vengano spenti da altri. Ma ci è chiesto di evitare, direi proprio di censurare, l’uso di termini impropri come relazione, fidanzamento. Chiamiamo ogni cosa con il proprio nome. È solo in un cammino di maturazione personale e relazionale che si giunge ad una scelta d’amore».

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