Il prossimo mercoledì, 21 marzo, sarà la prima Giornata mondiale dedicata alle persone con sindrome di Down sponsorizzata dalle Nazioni Unite. La risoluzione che ha istituito questo appuntamento – che verrà celebrato anche al Palazzo di Vetro di New York – è stata proposta dal Brasile e poi approvata dall’assemblea generale dell’Onu lo scorso dicembre. È stato l’esito di un’opera di sensibilizzazione e di pressing durata anni – è dal 2006 che la giornata si celebra in vari Paesi – a opera di «Down Syndrome International», un’organizzazione con diramazioni in vari Paesi e sede in Inghilterra. Un grande successo, indubbiamente, e un’iniziativa più che meritoria che va nel senso – come spiega la charity britannica – «di aumentare la consapevolezza e la comprensione di una condizione che riguarda approssimativamente un nato ogni 800».
E tuttavia non mancano le ombre, o meglio, le patenti incongruenze nell’iniziativa targata Onu. Perché il vero pericolo per una persona con sindrome di Down oggi ha un nome molto semplice: aborto. Quell’aborto che proprio le Nazioni Unite da decenni cercano di depenalizzare e quindi di favorire in una miriade di forme e con molteplici sponsorizzazioni. Difatti, nei comunicati che spiegano il senso della Giornata di mercoledì prossimo del tema-aborto non c’è traccia. Un silenzio inquietante, e in fondo assurdo: è necessario mobilitarsi per i diritti delle persone Down, per il loro inserimento sociale, contro i pregiudizi e le discriminazioni, ma solo non appena queste vengono al mondo; finché sono nel grembo materno è invece legittimo fare di loro più o meno ciò che si vuole. Incluso eliminarle.
Ha fatto recentemente scalpore la notizia rilanciata da Avvenire riguardo alla Danimarca, dove, secondo uno studio, negli ultimi anni si è avuto un crollo di nascite di bambini Down, con la previsione che entro il 2030 non ce ne sarà più nessuno. Ma le minacce nei confronti dei nascituri Down si addensano un po’ ovunque, specie per l’affinamento della diagnostica prenatale associata a una cultura del "bimbo sano" e dei "diritti" dei genitori ad avere un figlio "su misura".Negli Stati Uniti lo scorso autunno è stato lanciato «Maternit21», un test prenatale in grado di evidenziare l’eventuale trisomia 21 del nascituro non più nel modo invasivo dell’amniocentesi o dei villi coriali, ma con il semplice esame del sangue della madre. Un test che ha suscitato polemiche accese per il pericolo di veder aumentare ulteriormente il ricorso al cosiddetto "aborto terapeutico" per la sindrome di Down. Del resto, in diversi Paesi anche la giurisprudenza sembra voler dare una mano a questa tendenza. Per limitarsi a un caso fresco, due settimane fa a una coppia dell’Oregon (Usa) è stato riconosciuto un risarcimento di ben 2,9 milioni di dollari. La Corte ha dato ragione a Deborah e Ariel Levy che avevano sporto denuncia perché nella diagnosi prenatale cui la donna si era sottoposta il medico non aveva rilevato la trisomia 21 della piccola Kalanit. I due hanno detto di essere stati distrutti dalla scoperta della malformazione congenita della figlia, e che, se ne fossero stati al corrente prima, l’avrebbero abortita. I Levy hanno tra l’altro due figli. E chissà cosa penseranno – si è chiesto Steven Ertelt dell’agenzia Lifenews – quando sapranno che i loro genitori hanno voluto arrivare in tribunale, dichiarando pubblicamente che avrebbero soppresso la vita della loro sorellina per un difetto genetico, risarciti con una montagna di denaro. Quel che forse si può e si deve dire, tornando al 21 marzo, è che una giornata per i diritti delle persone Down, per avere davvero un senso, deve essere un momento per riflettere anche su questa deriva eugenetica, ben più crudele di ogni discriminazione sociale.