Perché no alla tortura
domenica 5 febbraio 2017

Dobbiamo essere onesti con noi stessi: il nostro no alla tortura, anche quando è fermo e assoluto, appare spesso stanco, ripetitivo, male e pigramente argomentato, in una parola sola "moralistico". La posta in gioco è troppo alta per permetterci tutto questo, per continuare a sfruttare le argomentazioni che il fondatore del diritto penale moderno, Cesare Beccaria, affidò a quell’esemplare, piccolo libro che è "Dei delitti e delle pene", in cui la critica alla tortura appare nitida e razionalmente fondata. Il fatto è che Beccaria scriveva in un secolo che non è il nostro e usava argomenti che non possono più essere i nostri. Insomma, se il presidente Trump si dichiara, per ora solo personalmente, favorevole alla tortura, ribadendo di essere convinto che essa «funzioni», non possiamo cavarcela dandogli torto rievocando Beccaria e usando i suoi toni illuministicamente sdegnati.

La tortura, ahimè, funziona davvero: non è detto che funzioni sempre, ma funziona molto spesso. È per questo motivo che tutte le critiche funzionali alla tortura (come quelle che stanno dilagando in rete) appaiono mosse da ottime intenzioni, ma lasciano il tempo che trovano, o addirittura suscitano l’irrisione che chi pretende di essere un «realista» (come appunto Trump) riserva costantemente all’ingenuità delle «anime belle». Andiamo al cuore del problema ed escludiamo dal nostro discorso le tante, possibili forme di pratiche, soprattutto giudiziarie, che storicamente sono correttamente considerate "tortura", ma che con la tortura, con la quale oggi siamo chiamati a misurarci, hanno ben poco a che fare. Cercare di ottenere la piena confessione dell’imputato torturandolo, per consentire in tal modo al giudice di emanare una sentenza giusta, scevra da qualsiasi rischio di errore giudiziario, è sembrato in passato più che giustificabile, ma le argomentazioni di Beccaria hanno da tempo, e definitivamente, rimosso simili contorsionismi dialettici. Quando oggi parliamo di tortura, facciamo invece riferimento (come appunto fa Trump) a pratiche che si inscrivono nella logica del contenimento o addirittura della definitiva sconfitta del terrorismo internazionale. E poiché la violenza del terrorismo è cieca, quantitativamente priva di limiti, crudele oltre ogni misura, ecco che una tortura che «funzioni» acquista nell’opinione di molti una sua legittimità. L’osceno modo di dire italiano "a brigante, brigante e mezzo", che sempre più spesso sentiamo ripetere con approvazione, ahimè anche a livello istituzionale, ne è un esempio lampante. Esiste un argomento razionale (non banale, non pigro, non emotivo) per dire di no alla tortura nell’epoca del terrorismo internazionale? Se per "razionale" intendiamo "funzionale", no. Non riusciremo mai a dimostrare che la tortura «non funziona»; potremo, tutt’al più, dimostrare che in un singolo caso essa può non aver funzionato, ma questo è un argomento retrospettivo, che non convalida alcuna prassi rivolta al presente o al futuro.

La verità è che il no alla tortura non può essere 'razionale', come pensavano gli illuministi alla Beccaria, ma deve essere 'cristiano'. Dobbiamo dire di no alla tortura non perché essa vada contro il buon uso della nostra ragione, ma perché altera l’immagine di umanità che con sforzi straordinari l’Occidente cristiano ha cercato di costruire nei secoli, quell’immagine secondo la quale il male va vinto non con il male, ma con il bene. Un’affermazione, questa, che può essere avvalorata solo proponendo alla ragione funzionale di inchinarsi davanti a un’altra dimensione della ragione, quella che è simboleggiata dalla croce e che gli illuministi (o almeno molti tra essi) hanno cercato e continuano a cercare di rimuovere. Il discorso si chiude qui. Naturalmente possiamo anche innestare sensatamente il discorso cristiano in sofisticate e suggestive prospettive antropologiche, che ci consentirebbero di mettere tra parentesi il riferimento alla croce. Non è difficile ad esempio rilevare come la tortura possa sì dare risposta alle esigenze funzionali di cui abbiamo parlato, ma solo al carissimo prezzo di lasciare ampio spazio alle pulsioni sadiche dei torturatori (diretti o indiretti). E possiamo anche aggiungere che un prezzo così esorbitante può destrutturare l’ordine sociale, tanto quanto le aggressioni terroristiche che si cerca giustamente di combattere. Resta però ferma l’astrattezza di simili valutazioni, che si muovono su di un piano intellettualistico, a fronte della concretezza della provocazione cristiana, che si muove invece sul piano dell’esperienza vissuta, quando esorta la vittima ad amare il proprio nemico e a perdonarlo, fino a settante volte sette. È una provocazione, quella introdotta nella storia da Cristo, che infine volte gli uomini hanno rifiutato di accogliere, ma che noi tutti abbiamo il dovere di reiterare costantemente, non per rendere ossequio allo spirito del diritto penale moderno, ma per ribadire la nostra fedeltà allo spirito sul quale - ne siano o no consapevoli gli ingenui fautori del marchese Beccaria - il diritto penale moderno e il suo no alla tortura di fondano.

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