domenica 5 luglio 2020
Via libera al decreto che prevede rimborsi a spese sanitarie e borse di studio per i figli delle donne uccise dai propri partner. Le associazioni: «Procedure farraginose e dati inesistenti»
Adesso i fondi ci sono

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La svolta era attesa da anni. Precisamente dal 2018, quando finalmente una legge aveva ufficialmente preso in considerazione il tema – drammatico – degli orfani di femminicidio. Quanti fossero, e quanti siano anche oggi in Italia (che età abbiano, dove abitino e a chi di preciso siano stati affidati e come), nessuno lo sa. Esistono soltanto stime, costruite sul campo da esperti e associazioni che riuniscono famiglie: 1.600 tra il 2000 e il 2014, poi un buco nero che oggi – considerando il numero di femminicidi avvenuti ogni anno – potrebbe averli portati a quota 2mila, forse più. Di loro, in ogni caso, dal prossimo 16 luglio lo Stato inizierà finalmente a occuparsi nel concreto.

È di questa settimana, infatti, la pubblicazione in Gazzetta del decreto interministeriale per la gestione e la ripartizione del fondo destinato a queste vittime “collaterali” della violenza domestica: 14,5 milioni per il 2020, 12 milioni all’anno dal 2021 al 2024. Con il 70% delle risorse disponibili riservate ai minori fra gli orfani (la quota restante sarà destinata invece ai maggiorenni che non siano autosufficienti da un punto di vista economico) e la quota prevista di 300 euro mensili per ogni minore in affidamento. Sulla carta è una vittoria, invocata da tempo e sostenuta da tutte le forze politiche (ne è stata prima protagonista Mara Carfagna con Forza Italia, oggi viene celebrata quasi a pieno titolo dal Partito Democratico). Eppure il famoso regolamento attuativo delle norme del 2018, secondo le associazioni che sostengono le famiglie che hanno accolto e che crescono tra mille sacrifici gli orfani di femminicidio, rischia di trasformare in un’odissea la richiesta dei contributi.

A cominciare dalla procedura indicata per l’accesso ai benefici previsti: rimborsi per le prestazioni sanitarie e assistenziali (soprattutto sedute psichiatriche, di cui la totalità degli orfani hanno costante bisogno), borse di studio, agevolazioni per l’inserimento nel mondo del lavoro. La via è la stessa prevista per il risarcimento alle famiglie che hanno avuto vittime di reati di stampo mafioso e reati intenzionali violenti: si indirizza cioè una richiesta alla Prefettura, che provvede a inviarla al Viminale, nella fattispecie al Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime in questione (il prefetto Raffaele Cannizzaro). «Un iter farraginoso, che rischia di durare mesi se non anni – denuncia preoccupata l’avvocato Patrizia Schiarizza, presidente del gruppo Il Giardino segreto, che riunisce un centinaio di famiglie affidatarie di orfani di femminicidio – e che complica ulteriormente le cose per chi si è fatto carico di queste situazioni tragiche». Quelle famiglie affidatarie, cioè, che – sembra incredibile – sono addirittura “dimenticate” nel passaggio del comma 2 dell’articolo 16 della norma, in cui si spiega come a presentare le istanze di accesso ai benefici prevista debba essere «il genitore esercente la responsabilità genitoriale, se non dichiarato decaduto [...], il tutore o gli enti di assistenza nominati dal giudice tutelare». Dove «il genitore esercente la responsabilità genitoriale» è, nella stragrande maggioranza dei casi in questione, il padre in carcere per aver ucciso la madre: «E visto che le istanze ai fondi si prevede debbano essere presentate ogni anno, questo vuol dire che ogni anno si presuppone che un figlio debba riallacciare rapporti con il padre in carcere per aver ucciso suo madre, con l’obiettivo di farsi firmare dei documenti» continua Schiarizza.


Oltre 26 milioni fino al 2024
Il decreto interministeriale per la gestione e la ripartizione del fondo per le vittime di femminicidio (istituito dalla legge di Bilancio 2018 e poi inquadrato nella legge 4/2018 che tutela questi orfani) prevede lo stanziamento di 14,5 milioni per il 2020 e 12 milioni all’anno dal 2021 al 2024. Sono previsti 300 euro mensili per ogni minore in affidamento.

Non è l’unica ombra del decreto. C’è la questione dei dati, di nuovo, in assenza dei quali sembra impossibile poter decidere come ripartire i fondi: eppure all’articolo 7, comma 1, si specifica che «con delibera annuale il Comitato, sulla base dei dati forniti dall’Ufficio di supporto al Commissario inerenti al numero di orfani, alle classi di età e alla condizione scolastica, nell’ambito dell risorse [...] individua il numero delle borse di studio assegnabili ed il loro importo». Come, dunque, se una geografia del fenomeno nel nostro Paese esistesse «cosa che invece invochiamo da anni, associazioni ed esperti, senza riscontri e che è prevista anche dalla Convenzione di Istanbul» conclude Schiarizza.


Spese sanitarie e borse di studio
I fondi sono destinati per il 70% ai figli minorenni e per la restante parte ai figli maggiorenni delle donne uccise da compagni, mariti, conviventi, ex, padri o fratelli. Con queste risorse potranno usufruire di rimborsi per le spese mediche, di borse di studio, sostegno per l’orientamento e la formazione per l’occupazione, incentivi per le assunzioni.

Sul fronte politico arrivano rassicurazioni: «Siamo consapevoli che questo provvedimento importante e tanto atteso, che ha subìto un ritardo anche dovuto all’emergenza Covid – spiega la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere –, intervenga su situazione drammatiche e già incancrenite. Siamo al lavoro, con il commissario Cannizzaro, perché le norme attuative interne degli uffici siano il più possibile snelle. La volontà forte è quella di semplificare il più possibile le procedure. E le famiglie affidatarie sono al cuore del provvedimento». Ma ci sono anche i maggiorenni, fra gli orfani, che chiedono aiuto e a cui sono riservati meno fondi: spesso sono proprio loro a rivolgersi alle associazioni chiedendo un supporto che anche oltre i 18 anni può continuare a servire. Nei prossimi mesi si saprà se e come anche le loro rischieste saranno accolte.


Le domande in Prefettura
Le domande di accesso ai benefici vengono presentate «dal genitore non decaduto, dal tutore o dall’ente di assistenza» alle Prefetture, che le trasmettono al Commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di stampo mafioso e dei reati intenzionali violenti.






La storia

Marco e Lucia, che non dormono

Tempo fa nonno Francesco raccontava la sua storia senza reticenze. A cominciare da quel giorno di marzo del 2014, quando la violenza inaudita di un uomo gli ha portato via la sua adorata primogenita. «Oggi no, non voglio che si dica il mio nome, o quello dei miei bambini. Ho paura per loro, le vittime siamo diventate noi. Della paura, del pregiudizio». Ha 75 anni e la voce ferma, quest’uomo del Sud, che ha appena finito di barcamenarsi tra le solite decine di fatture e scontrini: «Vuole che parta da qui? Ma sì, glielo dico subito. Io devo farle intestare a me, la maggior parte delle fatture. Perché quando vado a fare la dichiarazione dei redditi cominciano i problemi: di chi sono i bambini? E perché così tante visite? E poi sono incapienti, “questo non va bene“, “questo doveva essere fatto così”. Ci sono sempre e solo ostacoli, troppi». Al Caf, coi Servizi sociali, col Tribunale dei minori, col giudice tutelare. Nonno Francesco, alla vigilia dell’undicesimo processo legato all’assassinio di sua figlia, è stanco. E con lui Maria, la moglie, che di anni ne ha 68. Oggi nella casetta alla periferia della città c’è fermento, «torna la mia seconda figlia da Londra, dopo il Covid finalmente. Marco e Lucia non vedono l’ora di riabbracciarla». Già, Marco e Lucia, «morti viventi come noi. Ed è un miracolo che siano vivi, loro, visto che quel diavolo voleva uccidere anche loro. La storia ricorda quella di Lecco di questi giorni – continua Francesco –, abbiamo dovuto spegnere la tv in casa». Il marito di Carla l’ha uccisa davanti ai loro occhi, quando il grande aveva 6 anni e la piccola 3. A coltellate, e poi sfregiata. Marco, dallo choc, non ha parlato per due anni. «Ci hanno detto che era diventato autistico. Poi abbiamo scoperto il peggio, che veniva sistematicamente violentato anche. Non sono traumi da cui puoi riprenderti». E infatti Marco lotta, per vivere, ogni giorno: con lezioni dedicate, educatori e specialisti che lo seguono. «Lotta contro le sue paure, soprattutto. I piccoli non dormono. Lui lo tengo con me, Lucia sta con mia moglie. I primi tempi, quando c’era un rumore, scappavano a nascondersi. I medici ci dicevano che non sarebbero mai sopravvissuti, a un trauma così: che sarebbero diventati pazzi». E invece, grazie all’amore smisurato dei nonni, Marco e Lucia stanno provando a crescere come bimbi normali: lui, che desso ha 12 anni, segue il judo e la scuola, lei balla sognando di diventare famosa, un domani. «La mia rabbia? Lo ammetto, è nei confronti dello Stato. Da cui non abbiamo ricevuto un euro e Dio sa quando lo riceveremo». La mente corre al portafoglio sempre vuoto, «al benedetto Tfr che abbiamo avuto io e mia moglie quando siamo andati in pensione, con cui stiamo pagando tutte le spese per i nostri piccoli. E siamo fortunati ancora, rispetto ad altri: quando prenotiamo un ciclo di sedute dallo psicologo, la prima ci viene fissata dall’Asl dopo 4 mesi, altrove ne servono anche 8. Noi abbiamo preso le misure coi servizi però, abbiamo trovato anche uno specialista che ha studiato questi casi. Una famiglia che conosciamo del Piemonte, per trovare competenza nel trattare i suoi bambini, si sposta in Toscana». Nella legge del 2018 sugli orfani di femminicidio c’è un capitolo dedicato anche alla formazione delle équipe, «mi domando se viene fatta davvero. Noi intanto restiamo colpevoli d’essere vittime e anche io non riesco più a dormire».

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