«Non finirà a tarallucci e vino, ve lo assicuro. Non sarà la classica conclusione all’italiana...». Niente ieri ha potuto distogliere Matteo Renzi dal clima di festa per il matrimonio glamour dell’amico finanziere Marco Carrai. Ma a chi gli si è accostato per qualche valutazione politica, il premier ha ribadito che su Jobs Act e articolo 18, nella direzione Pd di domani, manterrà la linea dura. E lo confermerà anche stasera in tv da Fabio Fazio. La posizione è stata definita ieri dal ministro Giuliano Poletti. Si parte dalla delega presentata dal governo, emendata e approvata in commissione Lavoro al Senato con il «sì» del Pd. Lì si parla, con formula sufficientemente flessibile, di contratto per i neoassunti a tutele crescenti «economiche e giuridiche». «Non è vero che non abbiamo ascoltato i partiti e le parti sociali...», spiegavano ieri da Via Veneto. Il testo della delega, è la posizione, rispecchia le consultazioni e lascia qualche margine di ulteriore approfondimento prima della stesura dei decreti legislativi. Ma domani Renzi starà alla larga da chi lo vuole portare a discutere «sulle settimane o sui mesi dopo i quali scatta l’articolo 18». E ribadirà la sua convinzione: i licenziamenti individuali per motivi economico-organizzativi saranno risolti attraverso la conciliazione - com’è nello spirito anche della riforma della giustizia -, e prevederanno, sempre, un indennizzo economico proporzionato agli anni di lavoro. In questi casi il reintegro sparisce, fermo restando il diritto inalienabile del lavoratore di rivolgersi al giudice qualora ritenesse che dietro la causale economico-organizzativa ci siano altre ragioni. Ci sarà sempre la possibilità di andare in tribunale, invece, per i licenziamenti discriminatori. Qualche margine di incertezza resta sull’allontanamento per motivi disciplinari (nel modello tedesco è prevista la via giudiziaria). Allo stato, sembrano destinare a cadere nel vuoto gli ultimi appelli all’unità lanciati ieri con toni minacciosi da Vannino Chiti e con sfumature soft da Gianni Cuperlo. Ormai tirare dritto è una questione di credibilità, dopo gli affondi lanciati dal tour negli States. Anche ieri, durante il viaggio di ritorno, il premier ha voluto ribadire in un videomessaggio il senso dei 5 giorni negli Usa: «Siamo partiti dal futuro della Silicon Valley per dire che l’Italia può pensare al futuro, non è un Paese finito. Siamo stati nel presente di NewYork e dell’Onu per portare la voce degli 80mila migranti salvati. Abbiamo concluso a Detroit, simbolo di un passato che può cambiare: Fiat e Chrysler stavano fallendo e invece si sono risollevate ». Anche per l’Italia sarà così, scommette il premier. E il primo passo sarà il Jobs Act.