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La seconda latitanza del boss calabrese Rocco Morabito, narcotrafficante della ’ndrangheta, si è conclusa lunedì dentro una casa di João Pessoa, popolosa capitale dello Stato brasiliano del Paraiba. I segugi della polizia brasiliana, dell’Interpol e dei Carabinieri del Ros – che gli davano la caccia da quando, due anni fa, aveva emulato il celebre Rocambole evadendo da un supercarcere uruguaiano attraverso il tetto dell’infermeria, insieme ad altri reclusi – lo hanno pedinato a lungo. Poi hanno fatto irruzione nell’abitazione, prendendo due piccioni con una fava: con lui c’era infatti Vincenzo Pasquino, giovane esponente delle ’ndrine torinesi anche lui nella lista dei superlatitanti. Accanto a loro, nei cassetti e sopra i mobili, diversi cellulari, schede telefoniche, denaro e documenti. Tutto materiale sequestrato e ora da analizzare. I due narcotrafficanti, intanto, sono stati trasferiti in un supercarcere di Brasilia, affidati alla custodia (si spera attenta) delle autorità locali in attesa che vengano avviate le pratiche di estradizione.
Il fantasma «Tamunga». Classe 1966, originario di Africo (Reggio Calabria) e parente del superboss Peppe u Tiradrittu, Morabito era fino all’altro ieri nella lista dei criminali italiani più ricercati, il nome più grosso dopo il siciliano Matteo Messina Denaro. A 25 anni, aveva lasciato le balze aspromontane per la Lombardia, dove aveva iniziato a procurare cocaina ai rampolli bene della Milano da sniffare. Con lui, la "neve" viaggiava a tonnellate: nel 1992-93 aveva tentato di far arrivare due maxi carichi (592 e 630 kg) dal Brasile. Nel giro, lo chiamavano u Tamunga, soprannome derivato dalla storpiatura del nome dell’indistruttibile fuoristrada tedesco Dkw Munga con cui scorrazzava in Calabria. Dal 1994, aveva deciso di sparire ed era stato incluso nella top list del latitanti. Poi, per 23 anni, era stato un fantasma. Finché Fbi, Interpol e investigatori italiani non l’avevano scovato in un hotel di Punta del Este, insieme alla moglie, una 54enne angolana con passaporto portoghese. In Uruguay, Morabito viveva come un nababbo: villa con piscina, Mercedes, 13 telefonini, 12 carte di credito e un passaporto brasiliano intestato a un inesistente imprenditore, Francisco Antonio Capeletto Souza. Dopo l’arresto, Tamunga non si era rassegnato e nel 2019, prima di essere estradato, aveva architettato un’evasione clamorosa, svanendo per la seconda volta. Una beffa per gli inquirenti italiani, che però non hanno mollato. E, due anni dopo, sono riusciti a individuarlo ancora. Ora dovrà scontare condanne pesanti, fra cui una a 30 anni, per narcotraffico e associazione mafiosa.
«Cooperazione ineludibile». La Guardasigilli Marta Cartabia sottolinea «l’importanza della cooperazione giudiziaria internazionale», grazie all’utilizzo di uno strumento innovativo, messo a punto da Italia e Brasile col sostegno di Eurojust. È la squadra investigativa comune, nata 21 anni fa con l’articolo 19 della Convenzione Onu di Palermo del 2000 e che offre la possibilità agli Stati di «organizzare» pool transnazionali «per lo svolgimento di attività d’indagine». Anche la titolare dell’Interno, Luciana Lamorgese, parla di un «successo straordinario» con l’arresto del «secondo latitante più pericoloso». Soddisfatto il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, orgoglioso del «lavoro di squadra» e dell’eccellente «collaborazione giudiziaria internazionale».
Quattordici boss in un anno. Il vicecapo della Polizia Vittorio Rizzi, enumera a un anno dall’avvio del progetto I can, i 14 arresti di latitanti: «Tre in Argentina, due in Spagna e altri in Albania, Brasile Portogallo, Canada, Costa Rica, Svizzera e Repubblica Dominicana». Come a dire: alla globalizzazione delle mafie, si risponde con quella di giudici e investigatori. Nel solco dell’eredità di Giovanni Falcone, che nel 1984 insieme a Gianni De Gennaro, tornò in aereo dal Brasile col latitante Tommaso Buscetta, divenuto poi il primo pentito di Cosa nostra.