Emmanuel, Nigeria: «Ero un avvocato, ma il mio Paese senza libertà mi ha costretto a mettermi in cammino. La mia fede mi sostiene. In Italia posso avere le cure che mi mantengono in vita. In Nigeria sarei morto per molto meno» - Foto Francesco Malavolta
Saidou, Burkina Faso: «Vengo da una terra bellissima dove però la vita è troppo difficile e pericolosa. In Italia ho potuto studiare, prendere la patente, ho trovato un lavoro. Grazie a tutti gli amici del Centro Astalli che mi hanno aiutato in questi anni» - Foto Francesco Malavolta
Charity, Camerun: «Ho imparato sulla mia pelle che la guerra è ciò che accade quando il linguaggio fallisce. Il futuro non è distribuito equamente. Il futuro è il mio bambino che sta per nascere» - Foto Francesco Malavolta
Nataly, El Salvador: «Non sentirmi mai al sicuro, sempre sotto minaccia: erano le mie più grandi paure. Ora non più. Anche se cado, so rialzarmi. Lotterò per completare il mio sogno di completare i miei studi e dire alla mia famiglia che sono riuscita a laurearmi» - Foto Francesco Malavolta
Cedric, Rep. Dem. Congo: «La mia passione per la recitazione mi ha reso un rifugiato. In Italia ho la responsabilità di testimoniare ai giovani ciò che accede al mio popolo. Lo devo a chi è rimasto e non è al sicuro come me» - Foto Francesco Malavolta
Christelle, Rep. Dem. Congo: «Non avrei mai pensato di dover lasciare la mia grande e bella famiglia. Qui posso contare solo sulle mie forze. Studio duramente per laurearmi in Economia. Quando potrò tornare sarò migliore di quando sono partita» - Foto Francesco Malavolta
Esmat, Afghanistan: «I talebani hanno distrutto a scuola in cui insegnavo inglese ai bambini. Un maestro che non può insegnare è morto anche da vivo. Sono salvo, ma la mia famiglia è bloccata in Afghanistan, tutti i miei sforzi sono per far arrivare i miei fratelli che rischiano di morire» - Foto Francesco Malavolta
Moussa, Mali: «La parola chiave della mia vita fino ad oggi è "fuga": lunga, difficile, e inaspettata, che mi ha portato in Italia. Spero che nel mio futuro ci sia solo un cammino lungo, pieno di amici ed esperienze arricchenti» - Foto Francesco Malavolta
Per i suoi 40 anni di attività il Centro Astalli, Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia, inaugura la mostra «Volti al futuro», venti ritratti di rifugiati accolti al Centro Astalli, realizzati da Francesco Malavolta nelle strade di Roma. La mostra, che fino al 28 novembre sarà esposta nella berniniana chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, è stata inaugurata dal cardinale Angelo De Donatis, Vicario di Papa Francesco per la Diocesi di Roma, dal cardinale Michael Czerny, sotto segretario della Sezione Migranti e Rifugiati della Santa Sede, dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri.
«Non vogliamo celebrare il passato - ha detto padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli - ma vogliamo impegnarci da oggi a costruire il futuro con i rifugiati. Per questo siamo qui, per rinnovare il nostro impegno nella costruzione di comunità aperte e solidali in cui i migranti vengano percepiti come una ricchezza, come un dono. Noi da 40 anni a Roma lo sperimentiamo ogni giorno. Operatori e volontari sono testimoni credibili della bellezza dell’incontro con i rifugiati».
Papa Francesco ha voluto scrivere il saluto introduttivo della mostra fotografica del Centro Astalli: «Pensando a voi rifugiati - è il messaggio del Santo Padre - mi viene in mente il popolo di Israele che per 40 anni cammina nel deserto, prima di entrare nella Terra Promessa. Liberato dalla schiavitù, ha impiegato il tempo di una generazione per costituirsi come popolo». Così «molti tra voi sono dovuti scappare da condizioni di vita assimilabili a quelle della schiavitù». Durante il viaggio «troppo spesso vi scontrate con un deserto di umanità», mentre «nazionalismi e populismi si riaffacciano a diverse latitudini, la costruzione di muri e il ritorno dei migranti in luoghi non sicuri appaio come l'unica soluzione di cui i governi siano capaci per gestire la mobilità umana». Nonostante tutto sono tanti «i segni di speranza». E i rifugiati sono «segno e volto di questa speranza», nell'augurio che «si realizzi veramente la cultura dell'incontro»